Manca poco all’uscita di God of War Ragnarok, sequel del primo capitolo uscito nel 2018, con delle responsabilità e aspettative che pesano come un macigno. Il buon Cory Barlog è chiamato ad un nuovo “miracolo”, quel “miracolo” che Shannon Studstill, ex n.1 di Santa Monica Studio, chiese al Game Director americano in quel lontano 2013. I successivi 5 anni sono intrisi di leggenda, che poi, per osmosi, è transitata nel reboot della storica saga.
Il buon Cory, dopo gli anni sabbatici passati in Avalanche Studios e Crystal Dynamics, si presentava come un uomo diverso. Non era più quello di God of War e God of War II. Era cresciuto anagraficamente, si era sposato ed era anche diventato padre. Quando i capoccia di SONY chiesero a Shannon Studstill di imbastire un reboot della saga, lei, con timore, contattò Cory Barlog. Sapeva benissimo che non era più quel Cory che conosceva, che aveva costruito un’icona della violenza e del gore. Che aveva lasciato la direzione di God of War III dopo nemmeno 8 mesi di sviluppo.
Eppure quell’uomo nuovo, un Barlog in versione next-gen, è riuscito a compiere il miracolo. Non lo ha fatto da solo, questo è poco ma sicuro. Il Game Director americano, infatti, era circondato da persone che, come lui, vedevano quel miracolo prendere forma giorno dopo giorno. Anche quando il numero di bug era talmente alto da costringere il rinvio del gioco di circa 5 settimane. Anche quando, a meno di un anno e mezzo dalla consegna prevista del gioco, erano solo pronti i primi 9 minuti di gioco, e mancavano ancora una 30ina di ore da costruire da zero.
Ed oggi sono qui, a narrare le gesta di God of War del 2018, mentre immagino quello che succederà a novembre in God of War Ragnarok. Mi faccio quello che nel gergo non convenzionale amo definire come “masturbazioni intellettuali” – o se preferite seghe mentali – ma il tutto è finalizzato a sottolineare un piccolo dettaglio. Questo non è solo un sequel, ma è anche un filosofico remake. Calmi tutti e posate i forconi. Prima di urlare alla bestemmia, concedetemi il beneficio del dubbio.
Diventare padre e crescere un figlio
Il reboot di God of War ha visto Kratos indossare un vestito del tutto inedito. Sappiamo benissimo che è già stato un padre oltre che un marito, e che la sua famiglia fu sterminata davanti ai suoi stessi occhi. L’episodio divenne il catalizzatore della sua furia, una rabbia che lo portò ad annientare l’intero Olimpo degli Dei e portare a casa la testa di Zeus. Non sappiamo esattamente quanto tempo sia passato da quell’arco narrativo, ma si capisce che quel passato è ancora la sua persecuzione. Nel frattempo, si è innamorato di una metà donna e metà gigante che ha dato alla luce Atreus, anche egli con i tratti genetici della madre. Ovviamente l’altra metà è tutta del padre e questo è un aspetto che non ha trovato una giusta collocazione nel primo capitolo.
Il difficile rapporto tra padre e figlio è stato al centro della trama del reboot di God of War. È più facile essere il Comandante di un esercito di spartani che scendere a compromessi con il sangue del tuo sangue, ma il destino del guerriero prevede questa nuova prova da superare. Entrambi hanno molto da imparare l’un l’altro. Kratos ritrova il suo lato umano che aveva perduto nel corso dei 3 capitoli regolari e i 4 spin-off. Il ragazzo, pian piano, dimentica di essere un “semplice” essere umano e va incontro al suo destino, percorrendo il cammino del guerriero.
Ma in tutto questo c’è un’ombra. Una profezia che introduce God of War Ragnarok e che svela la vera identità di Atreus e quello che dovrà fare per compiere il suo destino. Il suo vero nome è Loki, un nome che tutti noi conosciamo bene per via delle vicissitudini cinematografiche dell’universo Marvel. Un personaggio ambiguo, subdolo e spietato, che pensa solo ai suoi interessi e non si cura minimamente di quegli altrui. Se vi ricordate Atreus ha avuto dei momenti in cui non sembrava essere in se stesso, come se qualcosa dentro reclamava un posto sul palcoscenico. Chissà se in God of War Ragnarok questi demoni troveranno modo di liberarsi delle catene e rivelare il vero volto di Loki.
In questa profezia si vede anche Kratos a terra con la schiena appoggiata al figlio, in una specie di rituale dove sembrano scambiarsi qualcosa. Personalmente non ho abbastanza elementi per interpretare se questa sia una cosa negativa o meno, resta il fatto che potrebbe trovare una giusta collocazione in God of War Ragnarok. Con il Fimbulwinter alle porte e la fine dei giorni che inizia a suonare i primi rintocchi, tutto può succedere. E poi nessuno ha ancora confermato se questa sarà una trilogia o meno. Invero, è stato detto tutt’altro.
Che storia ci racconterà Cory Barlog?
Cory Barlog ama raccontare delle storie. Per sua stessa ammissione non è dotato di molta creatività di base per cui si ispira alla sua vita, alle sue esperienze passate e attuali. Basta vedere come è riuscito a plasmare il personaggio di Kratos, da guerriero violento e spietato a padre premuroso e talvolta affettuoso. In Kratos il riflesso di Cory. Nel reboot del 2018 tutto era nuovo per cui ci sembrava dannatamente catchy. È stato come un impatto frontale a 100 km/h che ha sgretolato il muro delle nostre certezze, creando numerosissime aspettative. Queste, a loro volta, sono diventate delle nuove certezze. Certezze che oggi alzano la posta in palio, edificando delle nuove aspettative.
La narrativa giocherà un ruolo fondamentale in God of War Ragnarok, e questo in Santa Monica Studio lo sanno tutti molto bene. Il reboot ha ricostruito quasi da zero la lore di questa saga, almeno per come l’abbiamo sempre intesa. Una storia immersa nella mitologia norrena, con Odino come Big Boss finale di questo nuovo arco narrativo e Thor che lascia il suo martello davanti la porta di casa di Kratos. E in tutto questo c’è la questione aperta di Loki, che dovrebbe essere una delle tematiche centrali di questo sequel. L’unica certezza è che ci sarà l’ultimo mezzo Dio e mezzo gigante Tyr, creduto morto per tutto il primo capitolo. Ci sarà anche Fenrir (il mega lupo gigante visto nel reveal trailer) che, secondo la mitologia norrena, dovrebbe combattere contro Odino all’alba del Ragnarok (e quindi potrebbe schierarsi al fianco di Kratos e Atreus al pari del grande serpente del mondo).
E non dimentichiamoci di Freya, che ha promesso vendetta dopo la morte del figlio per mano dell’ex generale dell’esercito spartano. Per carità, un epilogo inevitabile visto e considerato che era il villain del primo capitolo, ma si sa, una madre non guarda in faccia a nessuno. Anche quando i suoi errori sono evidenti (e attenzione a questo aspetto in quanto potrebbe essere la chiave di volta per alcuni eventi del sequel). Ricordiamoci sempre che Freya è stata la moglie di Odino e la loro unione ha dato alla luce Baldur, colui che morì per mano di Kratos. Se God of War insegna una cosa, è che il passato non resta mai come tale.
Ma cosa è cambiato dal 2018?
Ok, la fiera degli spoiler è finita e passiamo adesso ad affrontare quella che la realtà degli eventi. Dal 2018 ad oggi sono passati ben 5 anni. Il “grosso”, Santa Monica Studio lo aveva già preparato 5 anni fa, creando un mondo di gioco “modulabile”. Se vi ricordate la mappa era suddivisa in regni, alcuni dei quali non ancora esplorabili. E aggiungiamo noi “E grazie al piffero”. L’artifizio narrativo è stato utile per spoilerare quello che succederà nel secondo capitolo di God of War ancora prima che venisse ufficialmente annunciato. Un modo geniale per creare hype una volta arrivati all’end-game. Peccato solo l’assenza di DLC e contenuti extra per colmare questo quinquennio di silenzi.
In Santa Monica Studio, Shannon Studstill ha lasciato il posto a Yumi Yang, e sappiamo quanto Cory Barlog era legato alla prima. E non solo. Jonathan Hawkins e Dean Rymer, responsabili del level designer e del gameplay hanno lasciato lo studio per unirsi a Deviation Games. Dulcis in fundo, lo stesso Cory Barlog, lo scorso settembre, cedeva il testimone di Game Director ad Eric Williams, diventando il producer del gioco. Insomma, in una scacchiera come quella dello sviluppo di un videogioco quando ti mancano delle pedine fondamentali è facile che qualcosa inizi a traballare. Non voglio fare la parte dell’avvocato del diavolo, anche perché lo storico Game Director ci ha insegnato che nulla è per sempre, anche quando il mondo sembra non crederti a prescindere.
E poi c’è la questione next-gen, fattore determinante per la riuscita o meno di un gioco. All’inizio di questo sproloquio vi ho lanciato una provocazione, riferendomi a God of War Ragnarok come un possibile e filosofico remake del primo capitolo. Permettetemi, dunque, di spiegare il senso di queste mie parole. Nel 2018 avevamo la PS4 Pro come console di punta della famiglia SONY, che prometteva i 4K dinamici e il supporto all’HDR. Tradotto, risoluzione, colori e contrasti migliorati. Tutto questo è, adesso, la “base” della nuova PS5, che aggiunge i 4K(dinamici)@60fps, il pieno supporto al Ray Tracing, feedback aptico, trigger adattivi e Audio 3D. Non parliamo, quindi, solo di grafica migliorata, ma è una nuova frontiera dell’immersione, un qualcosa di assolutamente inedito per la saga di God of War.
È come se fosse un nuovo momento zero per la saga, se la intendiamo dal punto di visto dell’esperienza utente (ah ah, se non ricordo male siamo su Game-Experience giusto?). Chiedetelo a Naughty Dog e a The Last of Us Part I se queste mie parole siano campate in aria. Tutto quello che approda su PS5 come sequel – che trae origine da una generazione precedente – assomiglia, per forza di cose, ad un filosofico remake se lo si intende sotto il profilo esperienziale. Ok, la storia evolve per ovvi motivi, ma il livello di immersione che vivremo in God of War Ragnarok sarà privo di paragoni intestini. Ora, se volete, prendete i forconi (o le asce giusto per restare in tema). Io, nel mentre, preparo gli abiti pesanti. A novembre farà molto freddo.