Joel e Kratos, protagonisti indiscussi rispettivamente in The Last of Us e God of War, che riscoprono il loro essere padre. I videogiochi sono anche questo, veicoli di messaggi che si celano nel sottotesto della narrazione videoludica, che alterna interazioni ed emozioni. Dietro il successo di questi due titoli ci sono due personaggi “chiaccherati”, Neil Druckman e Cory Barlog, Game Director rispettivamente in Naughty Dog e Santa Monica Studio.
Loro hanno raccontato una storia, e si sono raccontati nelle loro storie. Le loro vicissitudini, paure ed incertezze hanno dato vita a due capolavori senza tempo. Ancora oggi, che abbiamo avuto l’onore di giocare a The Last of Us: Part I, remake del gioco originale uscito nel 2013, ne apprezziamo l’intensità emotiva della storia e dei personaggi, come se fosse la prima volta.
A conti fatti, però, è la mia prima volta che rimetto mano a questi titoli nel mio inedito ruolo di padre. Quando si passa dall’altra parte della barricata tutto cambia (e ancora non ho abbastanza punti esperienza per dirvi se “in meglio” o “in peggio”). Rivestire i panni dei miei “simili” mi ha fatto comprendere alcune sfumature che prima non riuscivo a cogliere. Il senso di questo speciale è proprio questo, raccontarvi cosa significa “essere padre” per Joel e Kratos e come re-interpretano questo ruolo.
Una questione di consapevolezza
Quando si diventa genitori tutto quello che eri prima di quel momento, di colpo e in maniera improvvisa e repentina, scompare in un istante. Non è proprio un colpo di spugna o una transizione lenta e dolce, è proprio una secchiata d’acqua gelata con i cubetti di ghiaccio che ti scendono dolcemente davanti al viso. Non realizzi subito che il gameplay della tua vita sta cambiando, quando in quella sala parto lo senti per la prima volta urlare la sua vita al mondo. La build da nerd “in solo” era destinata a finire nel WC, per lasciare spazio a qualcosa che nemmeno io sapevo cosa fosse (ma era lì pronta in attesa di essere sbloccata).
Giorno dopo giorno, acquistavo la consapevolezza circa il mio destino, un’eredità che mio padre mio aveva lasciato e che adesso toccava a me portare avanti. La responsabilità di crescere un uomo. La capacità di giudizio e fornire gli strumenti per capire cosa sia giusto o sbagliato in primis, l’educazione di base e il sapersi comportare in pubblico. Tutti noi vogliamo e desideriamo il meglio per i nostri figli, credendo che l’unico modo per “farli felici” è il non fargli mancare mai nulla. In verità loro non hanno bisogno di cose materiali – come giocattoli, dolci e regali di ogni genere e tipo – ma cercano qualcosa di molto più banale (un termine poco appropriato in tale contesto); loro vogliono solo noi, le nostre attenzioni, la nostra considerazione e, infine, la nostra fiducia.
Questo rapporto è stato parafrasato anche nel mondo dei videogiochi, grazie a qualcuno che, correndo dei rischi piuttosto importanti, ha incentrato il rapporto padre/figlio all’interno di un contesto narrativo, sviluppandone le difficoltà, le crisi e le incertezze. Parliamo di The Last of Us e God of War, due titoli che hanno saputo emozionare oltremodo i giocatori attempati ma anche attirare le nuove generazioni. C’è chi, come il sottoscritto, è divenuto padre tra un capitolo ed un altro, vivendo quel passaggio di ruolo sulla propria pelle.
Joel e Kratos sono due padri, Ellie ed Atreus due figli, tanto diversi quanto simili per comportamenti e reazioni. Ricordiamo cosa ha fatto il primo per salvare l’eroina di The Last of Us Part II, sterminando l’intero personale di un ospedale e, ipoteticamente, compromettendo l’unica speranza di porre fine all’apocalisse. Una scena cruda ma che ci ha messo davanti ad un interrogativo: e se fossi stato io Joel, cosa avrei fatto per salvare mio figlio? A cosa sarei disposto ad arrivare pur di salvare la parte più importante della mia vita? Kratos, dopo aver sterminato l’Olimpo, se ne è andato zitto zitto nelle gelide terre di Midgard, per ritrovare la pace. Ad aspettarlo, invece, un’altra guerra, quella per salvare la sua famiglia (e radere al suolo le divinità norrene). Questi 4 personaggi ci racconteranno la loro visione del loro essere padri e figli.
La paura dell’accettazione
Ebbene vivere un’esperienza come The Last of Us nei panni di un padre è tutt’una altra storia. Siamo a dei livelli di empatia indescrivibili, soprattutto quando Joel vede morire sua figlia Sarah tra le proprie braccia. Cosa che successe anche al povero Kratos, quando Ares sterminò la sua famiglia davanti ai suoi stessi occhi. Due eventi che, per quanto sconnessi a livello narrativo, trovano un punto di incontro rispetto a quello che ne deriva e alla successiva caratterizzazione dei due personaggi.
Un aspetto che non vediamo nel primo filone della serie di God of War, visto che il lato umano del generale spartano non venne affrontato, se non lambito in alcuni momenti dei vari capitoli della saga. Per il resto, la cieca furia di Kratos e l’escalation di violenze e massacri restava il perno centrale sul quale costruire il personaggio. Soltanto in seguito, quando venne chiesto a Cory Barlog – storico Game Director di God of War – di dare nuova vita alla serie, ci si accorse che l’unica cosa che si poteva fare è quella di esplorare il lato umano del generale spartano, magari nei panni di un padre.
Joel vive il suo lutto in una maniera del tutto differente, allontanandosi da ogni forma di relazione sociale, costruendo un personaggio schivo ed a tratti disumano. Quasi come se non fosse più capace di provare emozioni. L’impatto non è dei migliori, anzi è anche pesante giocare nei suoi panni nei primi momenti di gioco. E poi arriva l’incontro che cambia tutto, con il destino che gli offre una seconda chance e lui con il terrore di coglierla.
Entrambi, a loro modo, non sanno come affrontare questo “dimenticato”, ma non del tutto inedito, ruolo. Il passato incombe e non gli lascia scampo, ma il presente suggerisce un probabile futuro sia per Joel che per Kratos. Atreus ed Ellie hanno bisogno di una guida in quello stato di smarrimento che è la preadolescenza. Le figure paterne “surrogate”, sanno bene come guidarli in questo loro cammino ma hanno paura di farlo. Non vogliono essere coinvolti, non vogliono soffrire. Non vogliono rivivere un nuovo ed ennesimo lutto.
La remissione e le responsabilità che ne derivano
La paura di imbarcarsi nuovamente in un’avventura già vissuta coincide con un senso di colpa mai superato. Di fatto è quello che succede quando si diventa padre. Tutto quello che accade al proprio figlio, di fatto, diventa una propria responsabilità. Anche se oggettivamente non si è partecipi o presenti, ci si colpevolizza con una sequela di “se” e “ma” naturali e fisiologici rispetto alla mansione ricoperta. Essere padri, ahimè, è un duro lavoro.
Comprendo le paure di Joel e Kratos, e aver rigiocato ora The Last of Us Part I, The Last of Part II, God of War (2018) e God of War Ragnarok mi ha fatto riscoprire un lato inedito della storia e dei protagonisti che prima di diventare padre non stato capace di cogliere. Quel substrato narrativo, quel sottotesto che Cory Barlog e Neil Druckman hanno voluto in realtà riversare nei loro giochi mi è arrivato solo adesso. Siamo ad un livello di immersione trascende il gameplay, e che parte dalle emozioni che solo la vita è in grado di regalarci.
Quando Joel comprende che senza Ellie la sua vita non avrebbe avuto più un senso, pur sapendo che il sacrificio di Ellie sarebbe servito ad un bene superiore se ne frega ampiamente. È quello che fa un padre, che farebbe qualsiasi cosa pur di salvare il proprio figlio o figlia. Nella fattispecie, sterminare un intero ospedale che era pronto a trovare una cura per la piaga del Cordyceps. Era il nostro eroe che non ci stava. I suoi sensi di colpa, d’un tratto, erano svaniti ed aveva accettato nuovamente il suo ruolo di padre.
L’evoluzione di Kratos non è netta come quella di Joel. Il generale spartano sfrutta le due puntate della saga norrena per evolvere ed accettare la sua mansione. Nel primo capitolo vede Atreus come l’artefice della morte della sua amata, e in un certo senso prova anche un senso di odio verso il mezzo uomo e mezzo gigante. I genitori, e soprattutto i padri, tendono ad identificarsi nei figli. Ma è una cosa fisiologica, e oserei dire “genetica”. Loro sono parte di noi e pertanto, hanno un “pezzo” del nostro IO. Alla fine, Atreus dimostra di avere la caparbietà del vero guerriero spartano, che lo porta a lanciarsi a capofitto in ogni tipo di avversità. Kratos, in God of War (2018), non fa altro che osteggiare questo comportamento, ma in God of War Ragnarok fa l’esatto opposto, anche se talvolta si dimostra un padre troppo rude.
Tutto questo per arrivare a quale conclusione?
Ebbene, vi confesso che arrivato a questo punto non sapevo esattamente come concludere adeguatamente l’articolo. Mi è toccato rompere le scatole al buon Alessandro di Liberto che, dopo aver letto il mio sproloquio, mi ha reso l’onore di concludere questo articolo nel migliore dei modi.
Il rapporto padre-figlio all’interno di un contesto narrativo stratificato come quello del videogioco non deve necessariamente avere un valore polarizzante per l’opera. La percezione del giocatore nei confronti di un titolo può cambiare significativamente in base non soltanto all’età di chi gioca ma anche e soprattutto in base all’esperienza. Il videogioco, tende ad adattarsi e modellarsi in base al giocatore che tiene in mano il pad. Un adolescente si riconoscerà in Atreus ed Ellie, ritrovando se stesso all’interno delle insicurezze dei giovani personaggi mentre un adulto, meglio ancora se un genitore, troverà tra le pieghe dei personaggi di Kratos e Joel un messaggio in più, condivisibile o meno che sia.
Di fatto Joel diventa l’antagonista di un mondo morente alla luce di una scelta comune per i villain “Sacrificarne pochi per salvarne molti”, spesso inaccettabile all’interno di un contesto narrativo basato sull’eroe senza macchia. Ma forse titoli come The Last of Us vanno oltre il paradigma di eroe, esplorando un lato più umano ed incoerente, egoista e dissontante della nostra sfera emotiva perché finché giochiamo nei panni di Joel è giusto sacrificare tutto per Ellie mentre sarebbe impensabile se avessimo giocato tutto il gioco nei panni di un altro personaggio. Questo genere di dissonanze sono comuni nei videogiochi che portano sullo schermo un’analisi umana dei suoi personaggi, la si può ritrovare anche in Red Dead Redemption 2 nel rapporto tra John Marston e Arthur Morgan e continua a sopravvivere quel dualismo descritto poco sopra.
In conclusione, abbiamo passato la nostra vita pensando che il videogioco come medium, a dispetto di quanto possano professare i mass media, aiuti a connettere i giocatori in tutto il mondo e ci stiamo rendendo conto, man mano che il mondo dei videogiochi cambia e si evolve anche in relazione alle figure che nascono e crescono all’interno dell’industria, che prim’ancora di creare una connessione con gli altri, i videogiochi ci aiutano a sopravvivere a noi stessi, ai nostri cambiamenti ed alle nostre incoerenze. La genitorialità non è altro che l’altra medaglia dell’infanzia, uno specchio riflesso che vede passare l’essere umano attraverso una transizione naturale eppure ancora piena di insidie ed insicurezze. Ma un dato videogioco non cambia nel corso degli anni, cambia la percezione di chi lo sta giocando, rivelando uno dei valori più importanti del medium: l’interazione è in mano a chi gioca.