The Last of Us può essere considerato, universalmente, come il punto di svolta della industry tutta. Sarebbe sciocco non ammettere che l’opera di maggior successo di Naughty Dog abbia rappresentato un confine netto e tranchant tra una vecchia concezione di gaming e quella che, oggi, vediamo come tale.
Quel 14 Giugno 2013, una data da segnare in rosso su qualsiasi calendario, non rappresentò solo il day one di TLOU ma settò un punto di non ritorno, un momento, percepito sin da subito, come un confine temporale che ci avrebbe aiutato a definire un prima ed un dopo The Last of Us. A distanza di dieci anni esatti, e di svariate ri-edizioni, sentiamo ancora la eco di quella data, con tutti i bonus (e gli immancabili malus) che l’uscita del capolavoro Naughty Dog ha portato con se. Proviamo dunque a ripercorrere, da un punto di vista prettamente personale, cosa abbia significato quel 14 Giugno 2013 per me. E lo facciamo mediante il nostro speciale sul decimo anniversario di The Last of Us.
Dieci anni…e non sentirli
Los Angeles, ore 12: mentre ci spostiamo da un’ala all’altra del convention center, correndo a sfinimento per raggiungere in tempo record l’ennesima presentazione della giornata (chi è stato mai ad un E3 sa bene come quei giorni sia bene munirsi di scarpe da ginnastica comode) giunge voce, grazie ad un passaparola continuo, di una gigantesca ressa allo stand Sony.
Pochi giorni prima della partenza per la città degli angeli, il mio collega di allora, Icilio, aveva avuto l’onere (onore, mai come in questo caso) di recensire l’ultimo prodotto di Naughy Dog, si, proprio quelli di Uncharted, tale “The Last of Us”. Ricordo ancora con vividezza la sua sincera emozione nel parlarci di quanto avesse appena esperito e, mai come quella volta, ricordo che contai i giorni che mi separavano dal ritorno a casa e dalla mia amata (coff coff…) PlayStation 3.
Le parole spese dal mio collega mi parlavano di un qualcosa che somigliava pochissimo ad un videogioco, tanto per maturità dei temi trattati, quanto per qualità realizzativa e, conoscendo la parsimonia con cui Icilio dosava le parole, il mio hype crebbe a livelli inusitati, al punto che non riuscii ad attendere il ritorno in madre patria per mettere le mani su quello che, oggi, facciamo fatica a non considerare un capolavoro senza tempo, un qualcosa molto più simile ad un film (o ad una serie TV) che non ad un prodotto videoludico.
Un hands on che ricorderò per sempre
Pausa pranzo – quel momento che, all’E3 vuol dire (per chi la fa), trenta minuti scarsi di decontingentamento prima di ri-iniziare la maratona quotidiana. Quel giorno decisi di saltarla e di correre fino al booth Sony dove, con un po’ di fortuna e qualche PR amico, riuscii a passare la fila per provare il livello introduttivo di The Last of Us. L’infezione, la fuga in auto, l’incidente, sono tutte scene che chiunque di noi, a dispetto della fazione videoludica di preferenza, ha bene fissati in mente, fino a quello struggente finale che, ancora adesso, mi da la pelle d’oca.
Uscii dallo stand Sony con gli occhi pieni di meraviglia e con una angoscia addosso che mai nessun altro prodotto videoludico, forse solo Silent Hill 2, mi aveva causato. E fu in quel momento che capii pienamente l’emozione provata dal mio collega che ebbe la fortuna di recensirlo (e di beccarsi il meraviglioso press-kit a forma di musicassetta). C’è poco da dire, avevo assistito, come tanti altri colleghi poco prima di me, ad un pezzo di storia, ad un momento che avrebbe cambiato per sempre, in meglio ovviamente, il futuro del medium videoludico.
Perchè, parliamoci chiaramente, fino a qualche anno fa, parlare di videogiochi o, meglio, di giochini, veniva visto come un qualcosa di degradante, per via del materiale di partenza considerato, giustamente, alla stregua di un divertimento spensierato, negando però al medium videoludico una profondità di progettazione, tanto dal punto di vista tecnico quanto narrativo, di cui, invece, gli addetti al settore erano ben consapevoli. Ebbene, nell’anno del signore 2013, The Last of Us, quello che oggi additiamo come il Part I, ha cambiato le carte in tavola, portando all’attenzione del grande pubblico una rivoluzione mainstream che noi “interni” avevamo già esperito da almeno un decennio.
Grande videogioco? Non solo
Mettiamo bene le carte in tavola, per essere più chiari. Qui nessuno sta dicendo, o si sognerebbe di farlo, che, prima di The Last of Us, il tema del distacco e della morte non fosse stato trattato, in ambito videoludico, da produzioni ben meritevoli di assurgere nell’olimpo videoludico. Lo stesso, già citato, Silent Hill 2 fu molto dibattuto per la trattazione del binomio morte-amore, sfociato nell’accoglimento della eutanasia. Di sicuro, però, nessuno prima di The Last of Us lo aveva fatto mettendo in scena dei personaggi a tutto tondo, a mo di attori pirandelliani privati della maschera appostagli sopra per definire un carattere predefinito.
Si, perchè, The Last of Us ci mette in contatto con la radice stessa dei sentimenti, con un dramma talmente vibrante da risultare vero. Il capostipite di questo franchise riesce nell’attuazione di un cortocircuito narrativo capace di far sembrare verosimile, vivibile e condivisibile una storia basata su fatti di cronaca inventati e lungi (speriamo) dall’avverarsi.
Facendo leva sulla umanità di personaggi troppo reali per essere inventati. i ragazzi di Naughty Dog riuscirono nel compito di creare un immaginario talmente trasversale da entrare, di forza, nella realtà di tutti i giorni, al punto da divenire oggetto di dibattito, divisione e, purtroppo, schieramenti che poco hanno a che vedere con l’umanità trasudata da ogni poligono di Ellie e Joel. La grandezza di The Last of Us fu appunto quella di abbattere, inconsapevolmente per i più, la quarta parete e trasportando, di fatto, il medium videoludico, dall’altra parte della barricata, tra i fatti di cronaca. Non più giochini o giochilli per bambini più o meno cresciuti ma attualità scottante e non trascurabile.
Joel o Troy?
La riprova di quello che già stavo maturando, dopo quell’hands on, la ebbi un paio di giorni dopo quando, appunto in un evento stampa organizzato da Sony per promuovere l’ultimo nato in casa Naughty Dog, ebbi la fortuna di assistere ad un talk aperto al pubblico con Troy Baker, doppiatore, tra i tantissimi altri, di Joel Miller.
Una delle domande poste al bravissimo Troy riguardò, per l’appunto, il finale di The Last of Us e la sua opinione a riguardo. Troy, candidamente, disse di essere rimasto toccato dall’amore di Joel nei confronti di Ellie, vista e considerata come una figlia adottiva, ma di non essere stato in grado di coglierlo appieno in quanto non aveva ancora esperito l’esperienza della paternità. Corsi e ricorsi storici vollero che lo stesso Troy Baker, intervistato pochi mesi fa, riguardo la presenza di Pedro Pascal nella serie TV di The Last of Us tornasse deliberatamente su quella domanda.
A distanza di anni, oramai padre, affermò che la sua opinione sul finale era cambiata diametralmente e che, adesso, con la maturità derivante dalla paternità, avrebbe condiviso pienamente la decisione di Joel di salvare Ellie, a dispetto di tutto, e che avrebbe fatto di tutto per tenerla vicino a sè. Questa, che potrebbe sembrare ai più una ovvietà, è invece lo specchio di quanto l’immaginario creato da Naughty Dog sia toccante e ficcante, al punto tale che anche diversi miei amici, ora padri, provano difficoltà nell’incedere nel playthrough del primo The Last of Us.
Un mondo post-covid
Come dicevo più sopra, pur essendo remota la possibilità di trovarsi nel bel mezzo di un evento epidemico come quello narrato in The Last of Us, nei dieci anni intercorsi dalla prima release del capolavoro Naughty Dog, abbiamo attraversato il triennio (2020-2022) Covid-19. Al netto di tutte le innegabili differenze, ci siamo trovati ad esperire situazioni già viste nell’opera made in Naughty Dog.
Indelebili sono, infatti, le immagini di Times Square deserta e di Central Park parimenti disabitata, come tante altre località nel mondo: evento che ha permesso, visto l’assenza dell’essere umano, l’avanzamento degli animali in quelle località, portandoci agli occhi immagini indelebili, profettizzate nel futuro ipotetico improntato da Naughty Dog per il loro franchise di punta.
Questi dieci anni, se da una parte ci hanno ricordato di quanto The Last of Us sia una finzione verosimile, dall’altro ci hanno evidenziato quanto, al netto di una evoluzione improbabile degli eventi, la centralità dell’uomo nel sistema mondo sia stata messa in discussione, nell’opera ND dalla presenza di Clicker ed affini, nella vita reale da un virus che ci ha confinato in casa, mettendo in scena una lotta per la sopravvivenza che, fino a quattro anni fa non avremmo mai pensato di dover combattere.
Dieci anni… siete proprio sicuri?
14 Giugno 2013 – 14 Giugno 2023 – Tremilaseicentocinquanta giorni sono passati dalla prima apparizione pubblica di The Last of Us. Dieci lunghissimi anni in cui il mondo è cambiato talmente tanto da fare il giro ed essere tale e quale a prima, forse peggiorato, sempre per colpa di una razza umana incapace di guardare prospetticamente al passato e di imparare dai propri sbagli.
Cosa ci rimane di questi dieci anni? Tutti gli insegnamenti di The Last of Us, tra tutti la grande fiducia non nel genere umano, ma nei singoli, dalle singole azioni che, se sommate, possono muovere una realtà globalmente inamovibile. E, soprattutto, una domanda? Siamo sicuri che The Last of Us sia soltanto un gioco?