Ciao a tutti, sono VIDEOGIOCO e sono arrabbiato come non mai. Sono un media che ha un potere di coinvolgimento assurdo, sono un’espressione tecnologica e narrativa multistrato. Grazie a me la gente può vivere momenti ricreativi, narrativi, didattici e legarli assieme in una nuova, armonica identità. Sono il media più complesso da sviluppare e sono il media più complesso da fruire. Ma non sono per niente soddisfatto della situazione attuale.
La critica ha perso la sua verginità da tempo, accanto ai consueti fanboy sono arrivati intellettuali e intellettualoidi in grado di comprendere il mio enorme potenziale espressivo. Ma i deficienti rimangono ben saldi al loro posto, specie sui social network. I vecchi utenti dei forum sono spariti ed ecco arrivare la hate parade di Facebook e dintorni. E i neuroni muoiono, tra commenti sgrammaticati, console war ed ignoranza della peggior specie.
Lato sviluppatori stanno sparendo le piccole software house, i giochi basati su piccole idee finiscono nel calderone dei giochi gratis su Game Pass. Fare un videogioco costa, fare un videogioco è difficile, rischioso. È stata messa alla sbarra anche la politica del sequel, della remaster o del remake, del poco lavoro e del tanto guadagno. Sono arrivate idee che sfruttano la corsa tecnologica, sono nati videogiochi che in passato non erano sviluppabili a livello di concept. Eppure i soldi mi soffocano.
I numeri parlano di prosperità. Soldi ed ancora soldi. L’industria del videogioco ha scavalcato quella cinematografica da tempo. Eppure sono irrimediabilmente più malato del cinema (e no, la pandemia per una volta non c’entra nulla). L’industry accusa costi di sviluppo e una tendenza allo scarso impegno in maniera analoga a quella cinematografica. È ciò è grave. È grave perché sono giovane, sono un adolescente con un bel po’ di brufoli in faccia. Starei alla grande, giuro, starei davvero bene se i problemi fossero solo questi.
Il mio vero cruccio è l’identità. Non so chi sono. Non ho sviluppatori in grado di produrre titoli che abbiano segni esclusivi miei, e quando questi giochi illuminati arrivano, una certa utenza idiota li boccia senza appello. Sono condannato al qualunquismo. Sono famoso eppure anonimo. Sono contaminato, eppure poco imitato. Mi sento una iena. Qualcuno deve aiutarmi. Ho bisogno di sviluppatori forti. Ho bisogno di visibilità.
Ho bisogno di team di sviluppo che si accorgano dell’inutilità della super arrampicata tecnologica, voglio passeggiare, portarmi a spasso i frutti dei miglioramenti, di concept unici, di pietre miliari che sfruttino le capacità per scopi strutturali e contenutistici. Ringrazio Naughty Dog e Rockstar Games (e anche un po’ Nintendo) che mi hanno resuscitato. Mi hanno dato una forma tutta mia.
Sono un media malleabile e potente che va usato con cura. Ringrazio i creatori di The Last of Us Parte II e Death Stranding. Entrambi manipolazione delle mia abilità, tesa ad arrivare a valori estetici, narrativi e ludici sorprendenti.
La struttura decade, il senso vince e la sensibilità distingue il gamer sobrio da quello disagiato. Ho un’identità inimitabile e mia senza dover arrampicarmi su chissà quali piramidi evolutive. Nel genere di The Last of Us, lui è paradigma ed arrivo. Ecco a cosa aspiro. Essere paradigma ed arrivo di me stesso. Essere unico ed irripetibile, come un Dio.
Hideo Kojima percorre un’altra strada e si fionda diritto nel mio cranio, dove Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty si incespicava dalle gambe fino al mio intestino per poi penetrare nel cuore. Death Stranding non arriva a tanto ma è un capolavoro concettuale, è struttura e sovrastruttura. Con Death Stranding esplodo nella mia complessità. Death Stranding è il classico, anche se anomalo strutturalmente, gioco d’avanguardia, sperimentale e quindi difettato, eppure capolavoro e punto d’inizio. In Death Stranding io smetto di raccontare storie orrende così come mi rifiuto di accontentare il giocatore, condanno l’errore con lo sfottò con un arrogante messaggio politico subliminale tipico di Kojima-san.
Al contrario, sono proprio un bastardo in The Last of Us Parte II. Inizio prendendo in prestito forme narrative altrui, tratto tematiche scomode con una forza inaudita per poi rimarcarle con forza nel finale. Provate ad imitarmi adesso. Sì, provateci, dopo che ho giudicato la società in cui vivete, inclusi i pregiudizi omofobi e discriminatori di questi anni in cui una bella fetta di pubblico ha perso ogni briciolo di umanità. Dopo che al giocatore ho affidato due antieroi così carismatici che tutti gli altri spariscono. Sono troppo coinvolgente. Ma non mi sfruttate.
The Last of Us Parte II e Death Stranding sono troppo pochi per una sola generazione. Voglio elevare la mia cosmesi a pura estetica, il mio sonoro ad elemento imprescindibile dell’azione e voglio nella tecnologia il potere lento dell’immortalità evolutiva (non mi servono a nulla 4K e ray tracing, se proprio vogliamo essere schietti e sinceri). Voglio dei videogiocatori esigenti, ma competenti e che recepiscano i titoli originali. Voglio una critica adulta, che renda l’informazione videoludica degna di essere chiamata tale. Non dei ragazzini che giocano a fare i giornalisti in cambio di un codice review. Voglio degli sviluppatori con le palle, visionari e perfezionisti, perché è da loro che deve partire il nuovo corso.
Perché sono un media sottosviluppato. Perché sono un media che ha un potere di coinvolgimento assurdo. Perché sono un’espressione tecnologica pazzesca. Perché voglio crescere. O chiedo troppo?