Dilaga sempre di più sulle community online la critica al cosiddetto “politically correct“, una tendenza secondo cui sempre più sviluppatori starebbero inserendo nei propri videogame elementi che strizzano l’occhio alla cultura LGBTQ+ oltre che al multiculturalismo, e che questo stia danneggiando i videogiochi stessi. Il primo caso clamoroso a scatenare l’ira di una fetta di videogiocatori è stato The Last of Us Part II, uscito lo scorso anno per PlayStation 4. Il titolo Naughty Dog ha provocato l’indignazione di alcune persone sentitesi offese per la presenza non solo di una protagonista omosessuale, ma anche di un personaggio di sesso femminile dall’aspetto mascolino. Una replica di queste assurde polemiche l’abbiamo vista con il più recente reveal di Horizon: Forbidden West, titolo di Guerrilla destinato ad uscire sulle console Sony il prossimo anno. La protagonista del gioco Aloy ha ricevuto infatti un leggero restyle, cosa che ha mandato su tutte le furie alcuni fan dei videogame. Questi sedicenti appassionati hanno infatti ritenuto che la protagonista fosse stata eccessivamente imbruttita secondo i loro gusti in fatto di estetica, un fattore anche solo ridicolo da affiancare al tema dei videogames. Giochi come Life Is Strange o Tell My Why hanno infine inflitto la mazzata finale alla community di detrattori del politically correct, considerati come mere operazioni commerciali. E’ evidente come le software house si stiano sempre più modernizzando anche sul fronte dei contenuti trattati, sia per cercare di includere più minoranze possibili ma anche e naturalmente per diffondere il più possibile il proprio prodotto. Che l’ammiccamento alle comunità finora poco rappresentate da parte delle grandi aziende si stia diffondendo quindi è cosa certa, ma che ciò possa in qualche modo scatenare un dibattito se sia giusto o meno è piuttosto imbarazzante. Il mondo dei videogames è davvero in pericolo per questa ondata del politically correct o si tratta soltanto di un’isteria di massa da debellare al più presto? God of War Ragnarok è rovinato per sempre?
Gods’ body shaming
Affrontiamo subito l’elefante nella stanza: God of War non è una rappresentazione fedele e attinente della mitologia norrena. Le principali accuse arrivate dopo il reveal al PlayStation Showcase delle scorse settimane si sono concentrate principalmente su un nuovo personaggio di sesso femminile, Angrboda, caratterizzato dalla pelle scura. Facciamo un piccolo ripasso. Nella mitologia norrena Angrboða è una gigantessa madre di Fenrir, il lupo mitologico, oltre che di Jǫrmungandr ed Hel, nonché amante e compagna di Loki. Nell’Edda Poetica, ovvero nella raccolta di poemi norreni che costituiscono le basi per la mitologia nordica, Angrboða viene soltanto nominata e viene descritta nell’aspetto come simile a Iárnvidia, anch’essa solo menzionata come una delle mogli dei troll. Non si hanno quindi dettagli a sufficienza sull’aspetto estetico di Angrboða se non poche illustrazioni ottocentesche sopravvissute ad oggi nelle quali viene rappresentata come una giovane ragazza dalla carnagione chiara, fisionomia piuttosto scontato vista la nazionalità tedesca del suo autore Carl Emil Doepler. Nella serie TV Vikings abbiamo poi un personaggio chiamato Angrboða, sempre di sesso femminile e dalla pelle chiara, che però non rappresenta la gigantessa stessa ma soltanto un’umana a cui è stato attribuito quel nome in suo onore. A prestare le movenze della Angrboda videoludica sarà invece Laya DeLeon Hayes, attrice di origini afroamericane. Apriti cielo, il web si è scatenato nei confronti di Santa Monica Studio rea di aver abusato del politically correct rappresentando un personaggio della mitologia norrena come una ragazzina di colore. Dopo questo triste siparietto ci ha pensato Matt Sophos, Narrative Director del gioco, a placare gli animi facendo notare agli stessi haters come nella mitologia norrena siano altrettanto assenti nani dalla pelle blu o altre figure presenti nel gioco uscito ormai tre anni fa su PS4. il problema più grave sta quindi nel non riconoscere God of War Ragnarok come un’opera di finzione, ispirata ad una mitologia ma comunque ricca di reinterpretazioni e licenze poetiche.
Ulteriori polemiche sono scaturite da design del Thor di God of War Ragnarok, rappresentato come un uomo piuttosto robusto con una folta barba rossa. Qui la polemica assume toni ancor più ridicoli, visto che la tendenza sembra essere quella di confondere la mitologia norrena con il Marvel Cinematic Universe. Udite udite, chi scrisse gli Edda non si basò sull’australianissimo Chris Hemsworth per descrivere il personaggio di Thor, che invece viene descritto come un individuo forte dai capelli e dalla barba rossa come il fuoco. Lo stesso Kratos protagonista della serie, interpretato tra l’altro da un attore afroamericano, ben poco ha a che vedere con la sua controparte mitologica. Scioccati? Forse sarebbe più opportuno attendere l’uscita del prossimo ed attesissimo capitolo della saga di Santa Monica Studio e giudicare il gioco per quello che sarà, anche se qualcuno ha già deciso la propria sentenza.
Lo farei un po’ più bianco
Nemmeno Hades fu risparmiato da critiche altrettanto meschine e insensate. Lo splendido gioco di Supergiant Games infatti ricevette a suo tempo polemiche per la “controversa” e filo-politically correct rappresentazione di alcuni esponenti del Pantheon greco con la pelle scura o dall’aspetto fin troppo giovanile e/o effemminato. Tutti ragionamenti assolutamente condivisibili se Hades fosse una ricostruzione storicamente corretta dell’Antica Grecia. Peccato si tratti “soltanto” di un videogame fantasy il cui setup è sì ispirato alla mitologia greca, ma che è stato comunque rivisitato in chiave moderna e fumettosa e che non deve in alcun modo sottostare a qualche tipo di regola o dettame. Gli stessi Saint Seiya, conosciuti da noi come I Cavalieri dello zodiaco, avevano suscitato molte meno polemiche all’epoca della loro uscita, pur avendo un setup simile e un design ben più bizzarro ed esagerato. Se quindi da una parte qualcuno vorrebbe farci credere che queste proteste siano mosse da uno spirito di conservazione della storia e della cultura, la verità è invece ben altra. Il whitewashing nel mondo dei videogames infatti esiste e finora non ha mai destato alcun scalpore o indignazione.
Di recente la presenza di personaggi multietnici è cresciuta a dismisura, da Nadine Ross in Uncharted 4 fino a Bayek in Assassin’s Creed Origins, passando per Kait Diaz in Gears 5 e Clementine in Tell Tale’s The Walking Dead per quanto riguarda i personaggi afroamericani, per non parlare di quelli LGBTQ+. Sembrerebbe quindi che i videogames stiano diventando il nuovo baluardo del politically correct, fino addirittura a far pendere l’ago della bilancia dalla parte minoranze in una sorta di discriminazione e razzismo al contrario. Anche qui, come se ci fosse bisogno di specificarlo, nulla di più falso. Prima di aprirsi definitivamente al multiculturalismo con Assassin’s Creed Origins, UbiSoft ad esempio decise di affidare ad Altaïr Ibn-La’Ahad, protagonista del primo capitolo della saga di origini siriane, la voce e l’aspetto di un attore bianco americano. Sempre rimanendo in tema UbiSoft, lo stesso Prince of Persia ha per anni avuto attori bianchi come prestavoce, nonostante la location e la sua cultura giochi un ruolo fondamentale nell’economia del titolo. Purtroppo anche la stessa Naughty Dog è caduta nella medesima trappola qualche tempo fa scegliendo un’attrice bianca proprio per la voce della sopracitata Nadine Ross. Ignorare perciò anni di campagne e strategie di marketing volte a non offendere le famiglie bianche cattoliche e l’opinione dei media nazionali significa ignorare la storia dei videogames. E’ altresì vero che mosse come quella di Netflix di proporre Albert Wesker nero nel prossimo adattamento televisivo di Resident Evil possono destare il giusto scalpore, ma ci si dimentica come anni prima Capcom rimosse Sheva Alomar, protagonista di Resident Evil 5, dalla copertina dell’edizione Gold in favore di una ben più filo-americana Jill Valentine nel silenzio generale.
La diversità nel mondo dei videogames è quindi un qualcosa da coltivare e proteggere, che non ha mai fatto del male a nessuno e non deve inficiare sul giudizio complessivo di un gioco. Gli haters spesso riversano il proprio odio e la propria intolleranza mascherandole da critiche costruttive sulla trama o i contenuti, celando invece un problema ben più grande. Negare l’esistenza di razzismo, xenofobia, omofobia, transfobia ecc. all’interno delle community di videogames e nell’industria stessa significa avere delle gigantesche fette di salame sugli occhi. Nessuno si è mai interrogato sul colore della tunica di Link in The Legend of Zelda, non avrebbe senso nemmeno farlo sul colore della pelle o su quali abitudini abbiano sotto le lenzuola questo o quel protagonista se la gente pensasse più a giocare e meno a discutere sui social.