Sono ormai passati vent’anni da quando per la prima volta i giocatori si apprestavano a vivere una delle esperienze horror più significative di sempre. Chris Redfield e Jill Valentine aprivano il portone di villa Spencer ed entravano in un piccolo mondo di oscuri corridoi, misteriosi sotterranei e giardini abbandonati. Resident Evil raccoglieva quanto di buono era stato seminato da importantissimi titoli nati nello stesso periodo (primo su tutti, Alone in The Dark) e lo riproponeva sulla storica Playstation, ampliando enormemente il bacino di utenza di un genere nascente: il survival horror. Quello vero, però. Quello che spaventava, sforzava le meningi, e ti costringeva a non sbagliare mai. Non ci sono più i giochi di una volta, diremmo noi veterani come dei vecchi signori nostalgici. Ma è davvero cosi? Cosa è cambiato?
Evil Inside
L’evoluzione di Resident Evil nel corso degli anni è stata piuttosto peculiare. Il ventennale scattato qualche giorno fa (il 22 Marzo) ricorda l’uscita del capostipite, un titolo che riporta alla mente ricordi davvero speciali. Che lo abbiate giocato in compagnia di un familiare o un amico, o che siate stati dei temerari affrontandolo da soli e a luci spente, non fa differenza: Resident Evil aveva un fascino tutto suo, ti spaventava, ti puniva al limite della frustrazione con comandi macchinosi e un sistema di salvataggio che costringeva a ripetere, ancora e ancora, le stesse sezioni. Eppure, nonostante tutto, la curiosità di scoprire cosa c’era dietro il prossimo angolo vinceva su tutto: magari solo per scoprire cosa succedeva inserendo 4 maschere mortuarie al loro posto, oppure per sapere cos’era quel verso terrificante proveniente dal sotterraneo, non potevamo smettere di giocare. Perchè? Perchè quel tipo di meccanica, pur sorpassata, ostica, non per tutti, era assolutamente magnetica. Dovevamo innanzitutto gestire con decisa attenzione l’utilizzo delle munizioni e delle cure: capitava talvolta di decidere volontariamente di ripetere una sezione, per giocarla meglio e ottimizzare quanto più possibile il consumo di risorse, in vista di difficoltà maggiori in arrivo e per evitare l’orribile rischio di ritrovarsi a combattere con il rudimentale (e inutile) coltello. Quella sensazione di sollievo che era data dal trovare un pacchetto di munizioni o un’armeria era qualcosa di difficilmente descrivibile a parole, cosi come il ritrovamento di un paio di Nastri Inchiostratori: capitava di trovarne 5, a volte 6, di sentirsi tranquilli. Sbagliando. Perchè quei 6 salvataggi ci sarebbero dovuti bastare per un’intera sezione di gioco, costringendoci a decidere con estrema attenzione quando valeva davvero la pena di consumare un prezioso checkpoint. “Quando ho salvato?” era la domanda che la nostra mente ci sbatteva in faccia ogni volta che incontravamo un nemico più aggressivo, pericoloso, o semplicemente più brutto. Ecco, riguardo ai nemici: non erano solo zombie, anzi. Dagli hunter agli squali , ma, soprattutto, a qualche simpaticissima vecchia gloria in catene (sapete sicuramente di cosa parlo) che vagava allegramente per la foresta prima, per le caverne poi, in attesa di darvi un caloroso benvenuto. Ad aggiungersi a queste piacevoli presenze, arrivava poi l’ambientazione stessa: era talmente ispirata, evocativa, caratterizzata, da diventare un vero e proprio personaggio a sè stante. Il backtracking, quel rivisitare più e più volte lo stesso posto con una nuova chiave o un nuovo oggetto da utilizzare, era quasi ossessivo, opprimente. Attraversare nuovamente un corridoio dove, un attimo prima, eravamo stati aggrediti da uno zombie uscito da un armadio o dai cani entrati dalle finestre, non era qualcosa di affrontabile a cuor leggero. Ma anche in questi casi, quando ci beccavamo l’infarto per qualche sorpresa inaspettata, c’era differenza rispetto al jumpscare abusato come lo vediamo oggi soprattutto negli horror in prima persona. Titoli come Resident Evil e soprattutto Silent Hill non avevano facce indemoniate e urlanti che comparivano in primo piano sullo schermo costringendoti a rivolgerti a uno psicologo per andare in bagno da soli nei successivi 10 giorni. Non ne avevano bisogno: era un horror più artistico, sottile, in grado di spaventarti sul momento, magari non troppo, ma che ti lasciava una sensazione di fastidio addosso per molte delle ore successive. Il feeling di totale inadeguatezza che avevamo provato in alcuni momenti, non riuscendo a controllare il nostro personaggio o non riuscendo a colpire uno zombie, erano limiti dettati da una concezione di gameplay più vecchia e macchinosa, si, ma di fatto contribuivano enormemente a creare panico e ansia nel giocatore. Se a tutto questo aggiungiamo poi personaggi come Albert Wesker e boss fight a dir poco epiche, otteniamo un mix di letterine in grado di andare a formare la parola “capolavoro”.
Horror has changed
Ciò che è successo nei successivi vent’anni che hanno portato al nostro 2016 non è esattamente facile da decifrare: si può parlare di una rivoluzione, di un grosso cambiamento, oppure l’unica parola davvero utilizzabile è “declino”? A dire il vero i capitoli immediatamente successivi al capostipite erano tutt’altro che meno curati. E’ chiaramente impossibile in questa sede analizzare,capitolo per capitolo, ciò che ogni singolo titolo ha portato nella saga. In breve e trascurando vari spinoff come Outbreak, Dead Aim, Survivor, potremmo dire che Resident Evil 2, in primis, andava a potenziare tutti gli aspetti migliori dell’originale, consolidando ancora di più la formula e dando ancora più risalto al racconto. Resident Evil 3 introduceva un nemico onnipresente, Nemesis, una spada di Damocle pronta a calare i suoi colpi sul giocatore nei momenti più inaspettati. Arrivava poi Resident Evil: Code Veronica X faceva da “more of the same” di qualità, e Resident Evil Zero proponeva il doppio personaggio e una qualità visiva spettacolare su Gamecube, insieme a Resident Evil Rebirth, remake del capostipite. Nel frattempo Capcom sfornava dal nulla piccoli gioielli come Haunting Ground, che molti forse neanche hanno avuto il piacere di conoscere. E poi, Resident Evil 4. Un successo, per molti, se non per tutti: era il gioco che segnava il passaggio alla vera nuova generazione del survival horror, a metà tra le meccaniche da horror classico e lo sparatutto più dinamico e moderno. Ma anche quello era un gioco spaccato a metà: la prima parte era un’ibridazione valida, ancora accettabile nel suo tentare di restare fedele alle origini. Enigmi semplici, atmosfera, c’erano ancora tracce dei fasti originali. Ma è con la seconda parte di RE4, l’isola, che si apre davvero la nuova generazione: totalmente action, con piogge di proiettili e poco, pochissimo ragionamento. Ma almeno c’era la cura per i dettagli, e mostri assolutamente terrificanti come i Regeneradores a tenere alta l’asticella qualitativa. E poi l’oblio: RE5, titolo dalla qualità visiva sconfinata e dalla trama interessante, ma totalmente privo di tutti quegli elementi che avevano reso grande la serie. Nessun tipo di enigma, level design lineare, addirittura a checkpoint. Poi ancora, RE6, l’esasperazione di tutto ciò che Capcom non doveva fare: tentare, fallendo, di proporre una campagna dai toni antichi e horror (Leon); realizzare una sezione totalmente sparatutto e fallendo ancora, a causa di controlli inadeguati (Chris); e infine, riuscere a salvare la baracca con un’inaspettatamente (quasi) valida campagna di Ada e una buona sezione con Jake. Piccola menzione la meritano certamente i due Revelation, che hanno quantomento il merito di aver tentato di riportare un pò di orrore e tensione sui nostri schermi. Ma se un non ancora annunciato settimo capitolo dovesse davvero intraprendere ancora la strada vista nel sesto capitolo, potremmo aspettarci solo nuovi titoli che potrebbero essere anche validi, se solo non portassero l’enorme fardello rappresentato dal nome di Resident Evil.
L’eredità
Fortunatamente c’è un barlume di speranza, e in un certo senso è nelle mani di noi utenti: i recenti capitoli arrivati in versione rimasterizzata sono la rappresentazione tirata a lucido del vero cuore di questa saga. Se dovessero vendere davvero bene, Capcom potrebbe fare due calcoli e capire ciò che i fan della saga vogliono davvero. E in questo senso qualcosa già si muove, ma per ora ancora in forma di semplice remake: è il caso di Resident Evil 2, dato che anche questo capitolo, forse il più amato, subirà un trattamento di bellezza per adattarlo alla nuova generazione. Certamente anche grazie al meraviglioso lavoro non terminato dei nostri Invader Games: il loro progetto di remake deve aver davvero attirato l’attenzione, se Capcom stessa ha successivamente deciso di intraprendere la stessa strada. E quindi, dopo vent’anni di zombie, orrori e proiettili, possiamo solo fare tanti auguri a Resident Evil: ti auguriamo di tornare ad essere te stesso, e di tornare a farci rabbrividire come sapevi fare in gioventù. Non solo remake e remastered, però. Potete farcela!