Secondo Wikipedia, “Libertà è quella condizione per cui, un individuo può decidere di pensare, esprimersi e agire senza costrizioni, ricorrendo alla volontà di ideare e mettere in atto un’azione mediante una libera scelta dei fini e degli strumenti che ritiene utili a realizzarla.”
Tante belle parole che però, in ambito videoludico, acquisiscono la valenza di un semplice espediente con cui camuffare una progressione guidata, ancorata al (seppur recente) passato di questo medium.
Bigger is better, per intenderci.
In The Legend of Zelda: Breath of the Wild, invece, libertà non è altro che assenza di vincoli oltre che la sua prima (e non unica) chiave di lettura.
È possibile affrontare fin da subito Ganon al castello di Hyrule, nessuna cutscene o barriera a impedirlo. L’unico pericolo concreto, probabilmente, è quello di venire dilaniati dalle sue fauci non appena raggiunta la sala del trono ma è comunque una scelta demandata al giocatore. Così come lo è quella di decidere o meno se liberare le anime dei quattro campioni imprigionati all’interno dei loro colossi.
Insomma, fin dalle primissime battute, in Breath of the Wild soffia il vento delle possibilità.
E potrei dilungarmi per ore su come sono stato in grado di affrontare una determinata situazione all’interno del gioco e scoprire, dal confronto con amici e conoscenti, che se avessi fatto in tutt’altro modo avrei ottenuto il medesimo risultato ma con un esiguo spreco di risorse. Oppure esattamente il contrario.
Tanto per fare un esempio, solo recentemente ho scoperto di poter tagliare quella sorta di tentacoli che sorreggono i guardiani a colpi di spada. All’inizio immagino che in molti avranno tentato l’approccio diretto, gettandosi nel vivo dello scontro e finendo inevitabilmente scottati.
Ecco, io sono stato uno di quelli. Allora ho cominciato a ingegnarmi. Scartate fin da subito le frecce – inutili, eccezion fatta per quelle ancestrali ma troppo costose e difficilmente reperibili – ho pensato di ricorrere alla “sacca digitale” degli strumenti: dapprima le bombe, fino ad arrivare al Glacyor. Ho aspettato che il guardiano finisse su una pozza d’acqua e, utilizzandolo, sono riuscito a ribaltarlo. In quella medesima situazione, ho scoperto che potevo ridurlo all’immobilità amputando i suoi arti meccanici e guadagnare contestualmente abbastanza tempo per eliminarlo una volta per tutte.
Ma c’è anche chi, semplicemente armato di apposito scudo, si è limitato a deflettere i suoi raggi laser e a ritorcerglieli contro. O anche chi ha preferito un approccio più strategico, magari ricorrendo a un arma in metallo e al Kalamitron durante un temporale…
Tutta questa libertà è figlia di un game design fondato su poche, semplici regole, che Hidemaro Fujibayashi, insieme a Satoru Takizawa e Takuhiro Dohta – rispettivamente Producer, Art e Tecnical Director del gioco – hanno esplicato in maniera approfondita durante un panel alla GDC 2017.
Coraggio, Forza e Saggezza: una Triforza fatta di semplici uomini (come scherzosamente ha sottolineato lo stesso Fujibayashi) ma dalle intuizioni fuori dal comune.
Così come, fuori dal comune, è stato l’intero panel: un fulgido esempio di game design snocciolato nel corso di un’ora e ventotto minuti di conferenza che ha inizio con un semplice prototipo “apparentemente” in 2D di Breath of the Wild. Potrebbe sembrare una scelta inusuale ridurre a uno schema così essenziale un gioco estremamente complesso come questo. Ma in realtà di cosa stupirsi? Parliamo pur sempre del legittimo erede del primissimo Zelda, la summa perfetta di ciò che Shigeru Miyamoto aveva sognato più di trent’anni fa.
In pochi, semplici passaggi, viene messo a nudo il cuore pulsante di questo titolo, un avvicendarsi e coesistere di motore chimico e motore fisico.
Semplificando: gli elementi possono modificare lo stato degli oggetti (il fuoco brucia gli alberi); gli elementi possono modificare lo stato di altri elementi (l’acqua spegne il fuoco); gli oggetti non possono modificare lo stato di altri oggetti (una roccia che ruzzola da una montagna non può abbattere un albero). E questi meccanismi aprono le porte a scenari del tutto imprevedibili, fuori dalle previsioni iniziali degli stessi sviluppatori.
Il risultato è un insieme di tante, piccole “bugie intelligenti” su cui si fonda Breath of the Wild e che rendono questo titolo se non reale, quanto meno credibile. Per questo il giocatore è spinto ad applicare le medesime dinamiche che (diciamo) replicherebbe nella vita vera. Certo, difficilmente qualcuno riuscirebbe a caricare un oggetto di energia cinetica e ad aggrapparvisi prima che schizzi via verso la sponda opposta di un crepaccio ma questa è proprio una di quelle piccole bugie che restituiscono un mondo credibile in cui potersi – letteralmente – perdere. Una delle sensazioni più belle mai provate da un giocatore nell’ultima decade.
Merito soprattutto di un fine level design intarsiato da torri, alture, punti dai quali è possibile abbracciare un regno tanto immenso quanto fiabesco.
La mappa in questo Zelda è solo un orpello; retaggio di un modo, forse vecchio, di concepire l’esplorazione in un videogioco. È la stessa Hyrule a creare dei veri e propri percorsi per Link, strade invisibili che collegano terra, mare e cielo attraverso fonti di luce rappresentate dai sacrari o dalle torri Sheikah. Elementi che non sono mai collocati in maniera casuale sulla scacchiera di Breath of the Wild ma conducono sempre verso una destinazione ben precisa. E la mappa, per quanto ricopra un ruolo importante, non è più l’intermediario tra giocatore e gioco. Tant’è che durante lo sviluppo della versione Wii U, per non minarne l’esperienza, quest’ultima è stata rimossa dal paddone e inserita all’interno dei menù, così come avviene nella controparte per Nintendo Switch.
La meta è sempre davanti al giocatore, nitida nell’orizzonte sconfinato. E Hyrule, seppur severa educatrice, è una mamma paziente che coccola e premia i suoi bambini.
Se ti arrampichi su quella parete rocciosa senza le dovute accortezze potresti farti molto male. Ma se riesci a raggiungere la vetta, beh, ecco la tua ricompensa: il regno si apre davanti a te, ne sei parte, vivilo. Un rapporto di intimità che il mondo instaura con il giocatore in ogni singolo istante, immergendolo nelle sue lussureggianti foreste e nelle sue limpide acque.
Tutta questa bellezza non può che venire accentuata dalla verticalità di questo mondo.
Lanciarsi da una rupe a strapiombo sul mare ricorrendo alla Paravela e atterrare su un’isola scorta in lontananza; accedere a un nuovo sacrario e imbarcarsi con la zattera appena trovata verso le terre poco distanti. Poi un’altra torre, paesaggi da perdere il fiato e di nuovo in volo su Hyrule. Ma si può ricorrere benissimo a un approccio più ragionato per scovare i tesori di questo regno, piuttosto che affidarsi alla fortuna. E a tal proposito vengono in aiuto le subquest, da sempre croce e delizia di moltissimi open world. Vai in missione, uccidi il mostro, prendi la ricompensa e inizi quella successiva, fino a quando la necessità di accumulare armi o esperienza viene meno e si può tornare a svolgere le mansioni principali richieste dal gioco. Una progressione concettualmente limitata in un mondo che fa della “libertà” il suo pilastro portante. Ulteriore elemento che fa acuire la percezione di una stagnazione del genere negli ultimi anni. E seppur titoli come The Witcher 3 donino un’anima, del sottotesto e un background a ogni missione secondaria, la conclusione è sempre la stessa: esperienza e equipaggiamento aggiuntivo.
In Zelda Breath of the Wild no. Anzi, spesso si finirà per imbattersi in subquest dove l’unica retribuzione per il giocatore sarà quella di aver scovato una nuova area, una nuova fonte, e sentirsi poi dire dal PNG che gli ha recapitato la missione: “Cos’altro vuoi ora, una ricompensa? Non ti basta aver trovato la fata che cercavi?”.
Oppure apprendere nuove meccaniche di gioco. Come realizzare una pozione anticaldo per un povero Rito impantanato in un’oasi nel deserto Gerudo: imparare a usare le materie prime che il mondo offre e nuovi modi per affrontare, così, i pericoli che si celano in ogni angolo del globo.
Perché in Breath of the Wild la comprensione di ciò che circonda il giocatore non passa attraverso lunghi tutorial o dialoghi fittizi, bensì attraverso l’esperienza: il fuoco brucia, il freddo congela, le forze della natura non sono sempre benevole.
Come non lo sono stati tra l’altro (e giustamente) gli sviluppatori, a partire dalle dinamiche nella gestione delle armi: basta poco per romperle e, soprattutto per quelle uniche, non è semplice riuscire a procurarsene una copia.
Ma se si analizza la questione da un punto di vista esterno, questa non poteva che essere la logica conclusione di un processo creativo votato alla libertà e all’esplorazione.
Supponiamo per un momento che non sia così.
Lo scudo Hylia è nel castello di Hyrule. Dopo qualche ora di gioco e un minimo di preparazione, decido di andare a recuperarlo. Certo, non è proprio semplicissimo, ma comunque fattibile. Lo prendo.
Che senso avrebbe, ora, continuare a cercare altri scudi se ho appena recuperato il più potente di tutti? Senza contare che, in tal modo, anche tutta la progressione personale legata all’esperienza di gioco verrebbe meno tornando a correre sui binari dei classici open world.
Insomma, se un’arma si rompe, continua a esplorare. Ne troverai un’altra, magari più affilata o potente. E poi, in futuro, non è che detto che non si possa recuperare l’equipaggiamento che hai distrutto in precedenza…
Il mondo di Breath of the Wild è vasto, sconfinato, ma purtroppo non esente da difetti. È impossibile, ad esempio, uscire fuori dai confini imposti dalla mappa, con pareti rocciose inaccessibili – accompagnate da una inelegante scritta a schermo “non è possibile procedere oltre” – o isole irraggiungibili disegnate sullo sfondo. Ostacoli invalicabili che vertono sulla sospensione dell’incredulità ma che al contempo catapultano fuori da Hyrule il giocatore con tutto il suo bagaglio di esperienze. Oppure il non poter tagliare o infiammare alberi dal fusto più grande di quelli che normalmente cesellano il paesaggio.
Sintomo, nel bene o nel male, che di lavoro da fare parlando di open world ce n’è ancora tanto. Eppure, in tal senso, Nintendo ha nuovamente dimostrato di essere sempre in prima linea quando si tratta di rivoluzionare un genere.
Così come nel 1986 con il primo Zelda; così come nel 1998 con Ocarina of Time.
Così come oggi, con Zelda Breath of the Wild.