Il recente annuncio di Microsoft di voler includere le nuove esclusive di prima parte sin da subito all’interno del catalogo di noleggio digitale Gamepass ha suscitato, comprensibilmente, l’approvazione di molti utenti Xbox. Tuttavia guardando la cosa in prospettiva e considerando le attuali condizioni del mercato videoludico, spaccato tra polemiche sui costi di produzione, sui mancati incassi e via dicendo, questa mossa potrebbe giungere al momento sbagliato, risultando addirittura dannosa.
Tutto e a poco. Vogliamo crederci?
Mi rendo conto che già solo avanzare questa ipotesi suonerà antipatico e sgradevole a qualcuno, perché in fondo avere a disposizione tanti giochi pagando poco è il sogno di chiunque e che questa cosa sia fattibile, ci vorremmo credere davvero tutti. Scusatemi quindi se faccio il controllore dei biglietti sul treno dell’Hype, tuttavia è bene prendersi un momento, ragionare a mente fredda e porsi delle domande. Tutto ciò è sostenibile?
Il settore dei videogiochi ha registrato una forte e costante crescita negli ultimi 10 anni, arrivando persino a superare l’industria cinematografica e musicale in termini di fatturato globale. Eppure rispetto gli altri due settori, questo è quello in cui sempre più spesso si parla di difficoltà del rientrare dei costi di sviluppo e produzione.
Come in ogni settore in crescita costante per diversi anni si rischia di creare la convinzione che questa crescita non solo possa, ma debba per forza essere continua e inarrestabile, salvo poi scoppiare fragorosamente come una fragile bolla. Esempi se ne possono trovare a bizzeffe, dal mercato finanziario con la crisi dei mutui del 2007, sin dentro lo stesso settore videoludico. La crisi degli anni 80 innescata da Atari portò il mercato a fuggire dal settore delle console casalinghe dichiarato da molti investitori come “morto”, “da abbandonare”, almeno sino all’ingresso di Nintendo e Sega. In questo periodo invece la transizione potrebbe avvenire verso il mercato mobile.
Oggigiorno il problema maggiore riguarda proprio il costo dei titoli tripla-A. Quale sia la causa per cui le cifre si sono gonfiate esponenzialmente nel corso degli anni (spese effettive di produzione, cattiva gestione delle risorse, o semplicemente fondi faraonici stanziati per la pubblicità), non ci interessa in questa sede, ma appare abbastanza chiaro che un gioco tripla-A o anche solo singola-A non può essere ripagato se commercializzato con cifre esageratamente basse.
Di conseguenza la prospettiva di inserire una novità che ha richiesto anche solo due o tre anni di sviluppo (salvo ritardi) all’interno di un abbonamento che costa 10 euro mensili lascia diversi dubbi su quanto questo sistema riesca a garantire la sostenibilità della produzione sul lungo periodo. La possibilità di comprare il gioco al termine dell’abbonamento Gamepass inoltre non è detto sia la scelta automatica, dato che molti utenti dopo essersi dedicati per un certo periodo (lo hanno finito qualora single player, non gli interessa più o non gli piace qualora sia un multiplayer) semplicemente lo archiviano e passano ad altro.
Netflix: una formula importabile universalmente?
L’ipotesi dietro “il Netflix dei videogiochi” inoltre non tiene in considerazione un fattore importante: che l’industria cinematografica/televisiva sostiene sovente spese minori per la produzione di un film di successo rispetto a quanto non richieda in media un videogioco. Per fare un esempio semplice: le commedie, i film/serie tv drammatici o sentimentali, hanno costi di produzione spesso bassissimi e in proporzione incassano tanto rispetto quanto costano. Questo perché non necessitano di effetti speciali, si realizzano con scenografie economiche se non addirittura effettuando le riprese in un banale interno di appartamento, trovando nel cast la unica voce forse davvero onerosa (Pensate ad esempi di basso budget/grande incasso come Big Bang Theory, Perfetti Sconosciuti o Paranormal Activity. Nei videogiochi non è riproducibile).
In un videogioco invece non importa se bisogna modellare il volto di un robot fantascientifico o di una persona normale in giacca e cravatta, entrambi richiedono ore di lavoro e lo stesso impegno per creare poligoni dettagliati, che reggano una risoluzione sempre più alta (lo standard 4K costa) e sfoggiare shader ed effetti di illuminazione sempre più elaborati. Un videogioco inoltre ha costi extra sconosciuti al cinema, come la gestione dei server per l’online e deve ripagare le spese annesse o nascoste (esempio: i montepremi dei tornei e-sport. Un semplice anno di tornei può costare milioni di dollari, bisogna tenerne conto, e saranno indiscutibilmente soldi deviati dallo sviluppo, perché sappiamo che a fare pubblicità e promozione le software house non rinunciano).
L’alternativa sarebbe ridimensionare i tripla-A sempre più verso i singola-A.
Ma cosa verrebbe tagliato di preciso in questo processo? La grafica o i contenuti? Da parte di chi punta al 4K come standard sembra difficile togliere la prima, eppure i costi si gonfiano molto solo per garantire fotogrammi costanti e risoluzione alta.
Ecco perché un simile modello commerciale può reggere per il cinema e le serie tv ma non è detto sia sostenibile anche nel mondo dei videogiochi.
Qualità o quantità?
Le avvisaglie di una dubbia sostenibilità del modello attuale sono già percepibili adesso che i giochi vengono venduti a prezzo tradizionale. La crescente invasività delle microtransazioni, la formula Game-as-service che talvolta porta al rilascio di giochi in condizioni paragonabili a quelle di una Beta, oppure con buchi grossolani e considerevoli sul fronte contenutistico e narrativo.
Già Sony aumentando da uno a due i titoli resi gratuiti con il servizio Plus ha fatto uno sbaglio, mettendo degli sviluppatori nelle condizioni di dover conteggiare meno copie vendute di fronte a molti utenti che hanno rinunciato all’acquisto all’uscita contando sul giocarli una volta offerti gratis, aumentando DLC e microtransazioni anche in campi dove una volta mai qualcuno si sarebbe sognato di vederle.
La mossa di Microsoft viene pubblicizzata come una ghiotta offerta, ma rischia di esasperare un meccanismo che già ora sembra sul punto di incepparsi. E’ quindi lecito valutare se sia davvero così positiva questa corsa al ribasso per soddisfare una voracità apparentemente insaziabile. Se forse non sia meglio preferire la qualità alla quantità e dare il giusto valore ad ogni cosa.
Non rimpiango un singolo centesimo del denaro speso per giochi come Halo 5 o Titanfall. Al contrario se il prossimo Halo 6 dovesse giungere sul mercato con mancanze indotte dal far quadrare i conti pur di renderlo accessibile a tutti i costi all’interno di un abbonamento da 10 euro mensili (magari pure condiviso con un’altro utente, dimezzando ulteriormente gli introiti per i produttori) sarebbe veramente una conquista? O ci avremmo perso?
Forse proprio Halo non perderà nulla, perché in quanto portabandiera verrà trattato comunque con i guanti, ma i titoli a rischio sono le nuove IP, le produzioni minori, quelle che ultimamente si trovano sulle spalle l’enorme peso di innovare, diversificare e mantenere fresco l’intero mercato.
Gli esempi concreti sono già riscontrabili adesso: per un Halo 5 e Gears of War 4 contenutisticamente solidissimi, completi e impeccabili, ci sono un Recore e uno Scalebound strozzati (letteralmente sino alla morte, nel secondo caso) dalle restrizioni di budget. Un Halo Wars 2 con una campagna dalla durata molto al di sotto degli standard del genere RTS, con pezzi di campagna e multiplayer sparsi tra season pass ed ulteriori espansioni.
Ciò che paghi è ciò che ottieni otterrai
Molti utenti inoltre stanno facendo i conti senza l’oste: alcuni calcolano che il risparmio sia concretizzabile pagando un mese di servizio per giocare un titolo da 70 euro. Questa prospettiva in verità è tutta da dimostrare. La casa di Redmond ha ribadito più volte di voler puntare tanto sul Game As Service, di conseguenza è plausibile che i futuri titoli spingeranno questa formula progressivamente e sempre più forte, magari riducendo ulteriormente i contenuti al lancio, aumentando Dlc e microtransazioni e spalmando gli aggiornamenti nel corso di un anno, in modo da forzare l’utente a dover rinnovare per mesi e mesi l’abbonamento, anche se vuole giocare un solo titolo completo e creando l’illusione di pagare poco. Non è scritto da nessuna parte che i giochi futuri saranno contenutisticamente paragonabili a quelli odierni, ma sappiamo che si può scavare molto a fondo su questo versante per togliere pezzi quì e là.
Personalmente trovo più interessante l’idea di un Fable 4 che si paga a prezzo pieno, ma che possa contare su di una qualità elevata.
Forse anche l’acquisto di videogiochi, un hobbie associato normalmente allo svago, al disimpegno puro e all’assenza di riflessione, sta per porci di fronte l’annosa questione di considerarlo sotto un profilo di sostenibilità, sul pretendere una minore quantità per mantenere alta l’asticella qualitativa.