A più di 20 anni dal suo esordio Resident Evil continua ad essere un argomento caldo di discussione nella scena videoludica. Con l’imminente uscita del settimo capitolo, che promette di “rivoluzionare la serie riportandola alle sue origini” (sembra un ossimoro, ma scopriremo che non lo è), ripercorriamo la storia del survival horror per eccellenza.
A come “atrocità”, T come “terrore” e “T-virus”
In principio fu Biohazard, il termine anglosassone usato per indicare i rischi epidemiologici letali per l’essere umano. Semplice, efficace, richiamava alla mente una situazione di pericolo ed indentificava il vero antagonista del gioco, quel T-virus responsabile della mutazione in zombie degli esseri umani ed espediente per giustificare le altre creature orribili e minacciose. Tuttavia al tempo era comune che passassero dei mesi tra la pubblicazione giapponese e quella occidentale e che nel frattempo il titolo venisse modificato per essere più accattivante per l’utenza degli altri continenti. Era già accaduto con Street Fighter Zero (divenuto Alpha fuori dal Giappone) e avvenne anche con Biohazard rinominato Resident Evil.
La potenza di questo esordio fu amplificata dal suo essere una nuova IP, dell’alone di mistero che ancora la circondava, dal fatto che nessun giocatore fosse a conoscenza degli esperimenti della Umbrella Corporation, lasciando il gusto della scoperta degli avvenimenti di Villa Spencer ai documenti rinvenuti nelle varie stanze, alle sequenze filmate, sino alle rivelazioni finali all’interno dei laboratori nascosti nelle fondamenta. A questo si aggiungeva una giocabilità che scuoteva le certezze del suo pubblico, enfatizzando il disagio e il pericolo in cui si trovavano i protagonisti. I colpi erano limitati, incontrare ogni nemico nei corridoi stretti poneva di fronte all’amletico dubbio se cercare di schivarlo per risparmiare munizioni, rischiando di essere aggrediti, oppure svuotare il caricatore e affrontare allo scoperto le stanze successive, con il timore di ritrovarsi di fronte una minaccia maggiore. Non aiutava neanche l’inventario che, seppur irrealisticamente generoso, non era illimitato come in altri giochi e obbligava a scelte ponderate sul raccogliere e usare con tempismo gli oggetti rinvenuti. Soluzioni di design volutamente spigolose, per mantenere la tensione alta sia sul piano narrativo che su quello prettamente ludico.
Le radici del survival horror
Complice di questo successo anche l’assenza di produzioni analoghe sul mercato di massa in quegli anni: era l’inizio dell’epoca 32 bit, con i primi giochi in tre dimensioni e si iniziava ad esplorare strade e tematiche nuove. Eppure Resident Evil non fu il primo survival horror in assoluto, nonostante abbia il merito di aver fondato quello che da lì in avanti sarebbe stato un genere consolidato. Il primato va ad Alone in The Dark, una produzione del 1992 ad opera della casa francese Infrogames di Bruno Bonnell. L’altra ispirazione fu Sweet Home, un’avventura sempre a tema orrorifico sviluppata dalla stessa Capcom nel 1989 per il Nintendo 8 bit e mai arrivata in occidente. Questa fu firmata da Tokuro Fujiwara, nome poco conosciuto dal grande pubblico, ma a cui si devono pietre miliari come Ghosts’n Goblins e Bionic Commando.
Di Resident Evil 1 è stato pubblicato un rifacimento per GameCube, recentemente rimasterizzato in alta definizione per PC, Playstation 3 e 4, Xbox 360 e One. I puristi dell’originale possono provarlo su Playstation 3 e Ps-Vita tramite la versione Ps-one disponibile in digitale assieme al secondo e terzo capitolo.
Da segnalare inoltre anche il prototipo per Game Boy Color, che venne cancellato perchè non ritenuto all’altezza della controparte per Playstation. Una scelta abbastanza inspiegabile per due motivi: il primo è che data la differenza di hardware che intercorreva tra una console casalinga a 32 bit e una portatile a 8 non si poteva in partenza aspettare risultati analoghi, mentre il secondo è che nonostante ciò, veniva spinta oltre ogni immaginazione la resa grafica della tascabile di Nintendo, rivelandosi in realtà una conversione notevole per il sistema su cui girava. Al suo posto invece arrivò Resident Evil Gaiden, un capitolo inedito ma passato in sordina e disconosciuto nel canone della serie.
Il secondo capitolo e l’occasione sprecata con Romero
Resident Evil 2, uscito nel 1998, portò a più alti livelli quanto visto nel predecessore. Dopo la villetta isolata situata sulle montagne Arklay, l’epidemia questa volta coinvolgeva l’intera Raccoon City e inscenava l’azione tra il commissariato di polizia e i meandri della città, espandendosi al punto da richiedere due dischi, ciascuno dedicato ad uno dei protagonisti. Come omaggio al padrino degli zombie, Capcom ingaggiò proprio quel George Romero, autore de “La notte dei morti viventi”, per dirigere la pubblicità di RE2. Il regista successivamente venne incaricato di gettare le basi di una sceneggiatura cinematografica basata sul loro videogioco, ma a quanto pare la prima stesura non convinse i vertici dell’azienda giapponese che la scartarono e chiusero così la collaborazione con il maestro per tentare un adattamento filmico più orientato all’azione, arrivando al Resident Evil diretto da Paul W.S. Anderson.
Nonostante la sceneggiatura di Romero pare fosse molto più raffinata e attinente al gioco e ai canoni del filone zombie, la scelta della casa di Osaka fu deviata dall’abbaglio del cinema commerciale. Le pellicole basate su Resident Evil sono presto sbandate in dei prodotti che, nonostante citino abbondantemente il videogioco nel riprendere nomi e creature, sbandano in un’accozzaglia di trash e azione caciarona, un errore non commesso dai capitoli videoludici, che invece anche nel loro essere sopra le righe, si sforzavano di mantenere una maggiore compostezza.
Resident Evil 3 Nemesis invece fu un piccolo passo indietro dopo la grandiosità del secondo. Si ritornava ad un gioco dalle proporzioni più contenute (un solo disco, anzichè due) e incentrato su di una sola protagonista, senza novità degne di nota e limitandosi a riciclare situazioni e meccaniche già viste. Questo però non impedisce a Nemesis di essere un buon capitolo e di riscuotere successo commerciale, tuttavia la critica fece notare il rischio di un accomodamento sulla reiterazione priva di innovazione.
Code Veronica e il saluto alle origini
Contrariamente a quanto molti pensano, i Resident Evil che concludono l’impostazione originaria della serie sono il Code Veronica e lo 0 e non il terzo.
Code Veronica, uscito in esclusiva temporale per Dreamcast e solo un anno dopo su Playstation 2, è da considerarsi come il quarto capitolo effettivo, nonostante sia assente la numerazione nel titolo.
Inizialmente doveva trattarsi del terzo episodio, tuttavia Capcom si era impegnata per sviluppare una trilogia su hardware Playstation 1 e promuovette Nemesis come il terzo ufficiale (nonostante sia basato su di un riciclo di asset del secondo, oltre che più piccolo rispetto al CV), postponendo le idee per il seguito effettivo del 2 in Veronica.
L’hardware della console Sega permise di migliorare la resa degli ambienti tridimensionali e di svincolarli dalle inquadrature fisse in diverse fasi, tuttavia le meccaniche legate a sparo e puntamento rimanevano le medesime dei precedenti. La trama inoltre ricopre un’importanza enorme, segnando il ritorno di un antagonista carismatico, Albert Wesker, e mutuando influenze cinematografiche illustri, tramite sequenze che omaggiavano la regia di The Matrix o la storia di Psycho di Alfred Hitchcock. Un gioco decisamente lungo, vario nei luoghi da visitare e incentrato sui Redfield (Chris e Claire) beniamini del pubblico. Code Veronica attualmente è disponibile per Playstation 3 e Xbox360 in formato digitale sui rispettivi portali.
I derivati e i primi esperimenti verso l’esperienza online
Il primo spin-off di Resident Evil è Gun Survivor. Negli anni 90 gli sparatutto basati sulle “light-gun”, ovvero le pistole dotate di infrarossi per interagire con lo schermo e simulare il puntamento e il fuoco di un’arma reale, erano molto popolari specie per via della loro diffusione sul mercato delle sale giochi. Dispositivi simili esistevano anche per le console casalinghe e Namco aveva prodotto la sua versione compatibile con la prima Playstation per supportare la conversione di Time Crisis. Capcom si buttò in scia realizzando un RE con protagonista un alleato di Leon Kennedy, inviato ad investigare su una base della Umbrella. Gun Survivor ottiene due seguiti, stavolta per Ps2. Il primo di questi è basato sulla semplice riproposizione dei fatti di Code Veronica in chiave shooter, mentre il secondo, sottotitolato Dead Aim, offre nuovamente un protagonista inedito e una trama originale. Entrambi sfruttano la Gun-Con di Namco che accompagnava la vendita di Time Crisis 2.
Due piccole gemme sottovalutate sono invece i capitoli Outbreak per Playstation 2. Entrambi sono ambientati a Raccoon durante l’epidemia e vedono come protagonisti non degli agenti speciali addestrati ma delle persone comuni, come ad esempio una liceale, una cameriera, un guardiano, un idraulico, che solo unendo le rispettive capacità e i limitati punti di forza (come portare oggetti, oppure combinare erbe mediche, creare armi improvvisate e via dicendo) possono avere la possibilità di sopravvivere . Tra le novità era presente anche la percentuale di infezione da virus-T, da tenere costantemente d’occhio, che in caso di morte con un grado alto rianimava il proprio personaggio come zombie, il quale attaccava gli alleati. Ottima anche l’esplorazione della città di Raccoon, passando da luoghi mai visti nei capitoli principali, che donavano grande identità e freschezza a questi episodi (cosa ci si può aspettare dallo zoo invaso dal T-Virus?). Gli Outbreak erano studiati per sfruttare il modem di PS2 per giocare in rete, organizzare partite con altri utenti e formare gruppi dove ogni ruolo aveva importanza per il successo della squadra.
A convincere era specialmente la giocabilità, che ricreava una vera esperienza survival, in cui scegliere ciascun personaggio era indispensabile per favorire il gruppo, ma comportava delle debolezze che rendevano un giocatore dipendente dall’aiuto di un altro. Arrivare alla fine di ogni area era quindi frutto di una cooperativa ben implementata che offriva spunti di gioco più interessanti rispetto alla banale “sparatoria in due” vista in Resident Evil 5 e 6. La comunità online di Outbreak 2 fu talmente fedele e appassionata che si narra sviluppò un hack per ospitare le partite su dei server non ufficiali dopo che Capcom spense il supporto alla modalità online. Tra tutti i capitoli da rimasterizzare in alta definizione, Outbreak è sicuramente quello che più potrebbe trarre giovamento e risultare valido da giocare grazie alle migliore connettività odierna.
La seconda e ultima parte dello speciale è reperibile a questo indirizzo.