Dopo anni di gestazione turbolenta è finalmente arrivato sui nostri dispositivi uno dei titoli indie più ambiziosi di sempre: Kingdom Come: Deliverance ha promesso un open world realistico e punitivo, un mondo medioevale senza l’ormai classica componente fantasy e che mostra il mondo dell’epoca con realismo e cura impareggiabili. Tralasciando le svariate problematiche relative a bug ed altre amenità puramente tecniche, vorrei concentrarmi su un aspetto del gameplay che mi ha dato modo di ripensare ad un concept che ho nella testa da molto tempo a questa parte. Nello specifico questo tarlo ha iniziato a rosicchiarmi la testa da alcuni anni, con l’avvento ed il successo di titoli open world e/o con elementi survival: molti giochi puntano sul realismo per consegnare un’esperienza complessa e che metta alla prova l’abilità del giocatore nel gestire tempo e risorse. Ma quanto è DAVVERO divertente giocare con questi elementi presenti?
Anche se si è arrivati a Kingdom Come: Deliverance, il tentativo dell’industria videoludica di “giocare con il realismo” è iniziato anni fa con un titolo estremamente celebre e che forse rappresenta davvero il primo esempio di gioco per casual gamers: The Sims. Nonostante l’enorme successo della saga, probabilmente uno dei primi esempi di vendite davvero grandi su una piattaforma difficile come il PC dell’epoca, il gioco rappresentava un chiaro esempio di come il realismo in un videogame fosse più un fastidio che altro. Le azioni meno interessanti erano quelle relative alla gestione corretta del personaggio o della famiglia: pulizia, bisogni fisiologici, lavoro, gestione del denaro e quant’altro. Non a caso i mitici comandi “klapaucius” e “rosebud” rappresentavano un must know per dare l’avvio a situazioni che fossero davvero divertenti: case enormi di mega lusso con dentro tutti gli oggetti più assurdi, per poi arrivare a non gestire appositamente la vita del personaggio e farlo crepare in piscina, sperimentare con prodotti chimici a caso e ricevere la visita del Tristo Mietitore in persona. Paradossalmente: il divertimento arrivava con l’allontanamento dal realismo.
Kingdom Come: Deliverance è ben diverso da The Sims per molti aspetti, ma per quanto riguarda rischia di scontrarsi con gli stessi problemi. Molti titoli survival omettono volontariamente alcune necessità fisiche di un comune essere umano per un semplice motivo: non sarebbe divertente, toglierebbe tempo ad altre azioni. Quando ci si mette a realizzare un gioco che vorrebbe ricalcare il più possibile la realtà, bisognerebbe ricordarsi del fatto che la realtà non è divertente: se giochiamo (anche in modo accanito) con vari videogiochi lo facciamo molte volte per evadere dalla realtà, spesso banale, in favore di mondi alternativi dove possiamo impersonare un prode guerriero, un ladro scaltro, un mago sapiente o ancora un esploratore, un cacciatore di tesori, un assassino spietato e così via. Giocare “alla realtà” può diventare presto noioso proprio perchè l’essere umano ha da sempre bisogno di stimoli che coinvolgano anche altri sensi oltre a ciò che soddisfa le semplici necessità fisiologiche. Molti giocatori hanno già espresso forti dubbi sul gameplay di Kingdom Come: Deliverance, soprattutto sul fatto che sono necessarie troppe azioni e troppi accorgimenti anche soltanto per restare in vita. Comprendo bene il desiderio degli sviluppatori di offrire un’esperienza il più possibile realistica: è un fatto noto che durante il medioevo i villaggi fossero luridi, pieni di fango e chissà di quanti insetti, e certamente all’epoca l’igiene personale era un fatto assai relativo. Il problema è che trasporre tutto questo in un gioco può funzionare inizialmente ma poi rischia di diventare castrante per lo svolgimento del gameplay stesso.
Se ogni volta che ci inciampa e si cade nel fango è necessario lavarsi altrimenti si prende il colera con morte conseguente potrà sembrare realistico ma si traduce in “gameplay eccessivamente punitivo”. So bene che siamo nell’era dei Soulslike dove qualunque prodotto con difficoltà superiore alla media viene osannato sull’altare del “Git Gud”, ma la difficoltà deve essere in grado di offrire sfida senza per questo massacrare l’utente ad ogni minimo errore. Come nella vita reale (stavolta in senso buono) ciò che non ti uccide ti rende più forte, si impara dalle esperienze per non ripetere più certi errori fatti in passato. Ma la vita è una cosa, un videogioco è qualcosa che dovrebbe offrire intrattenimento anche mostrando alcune problematiche della vita vera senza per forza trasportare nel mondo di gioco OGNI SINGOLO aspetto. C’è davvero gente che si diverte nel gestire un personaggio in ogni aspetto della sua vita, compreso il numero di volte in cui bisogna andare al bagno ogni giorno? Non vi basta già dovervi prendere cura del vostro corpo reale? Il concetto alla fine è uno solo: si parla di videogiochi e, per quanto realistici, dovrebbero sempre far si che il gameplay (ovvero ciò che crea il vero divertimento) abbia sempre l’ultima parola. Il realismo deve essere sempre subordinato alle necessità di gameplay per creare un connubio funzionale. Altrimenti avete già servito il vostro gioco preferito ogni volta che aprite gli occhi la mattina nel vostro letto: si chiama vita reale, ma spesso non è così divertente no?