La serie tv di Gomorra e Mafia 3 sono solo gli ultimi tasselli di quello che ormai è un filone consolidato. Il punto di vista malavitoso è l’altra faccia della medaglia del poliziesco, affermatosi come genere narrativo persino nei videogiochi e anche senza un nome ufficiale (proviamoci: “criminesco”? “criminalesco”? Qualcuno svegli dal torpore l’Accademia della Crusca per esprimersi su qualcosa che potremmo usare con più frequenza di “petaloso”).
Se a un ispettore Callaghan o un commissario Montalbano si contrappongono un Corleone o un Savastano, nei videogiochi non manca un’opposizione tra un Max Payne e un Tommy Vercetti, facendo pendere la bilancia più verso i personaggi votati all’illegalità.
Mafia
“Cosa nostra” è stata forse la prima organizzazione illegale ad essere mitizzata per via dei suoi codici d’onore e della sua struttura familiare, che la differenziavano dalla concorrenza sul suolo americano. La potenza mediatica di questo nome basta per giustificare il titolo di un videogioco che non ricorre ad altro che a quelle 5 lettere per presentarsi. Esce così Mafia nel 2002 ad opera di Illusion Softworks (autori anche del bellico Hidden&Dangerous, ora diventati 2K Czech), inizialmente pensato sulla falsariga di Driver, sino ad espandersi in un progetto ben più corposo, capace di mescolare l’ambientazione di Mario Puzo con la giocabilità di GTA3.
L’ispirazione a pellicole come il Padrino è palese, nonostante i fatti avvengano negli anni 30, più vicini al mito di Al Capone. La presenza di missioni a piedi in terza persona e fasi di guida, ricalca la stessa formula alla base del successo del titolo Rockstar. In quel periodo il pubblico in cerca di un nuovo GTA trovò rifugio in Mafia e il successo commerciale del gioco fu assicurato, riscuotendo favori su qualsiasi piattaforma (PC, Playstation 2 e Xbox), guadagnandosi un seguito nel 2010 con Mafia 2 e un terzo capitolo uscito proprio in questi giorni. Attraversando diversi decenni, 2K racconta la malavita italoamericana tramite personaggi molto vividi, carismatici e particolari, come i Salieri, Vito Scaletta e il più recente Lincoln.
Yakuza
Si può considerare l’erede di Shen Mue, dato che parte proprio dalle ceneri del capolavoro di Sega che ha innovato i videogiochi fondando il genere free-roaming.
Yakuza 1 fu pubblicato su Playstation 2 nel 2005 e nell’intenzione del produttore Toshihiro Nagoshi, la storia doveva raccontare una vicenda drammatica con tocco di umanità. Una scommessa vinta grazie al coinvolgimento di scrittori professionisti e all’ottimo lavoro di caratterizzazione del protagonista: Kazuma Kiryu, meglio noto come il Dragone del clan Dojima. Kazuma difatti rappresenta in pieno la definizione di anti-eroe: non può definirsi un buono vista la sua professione, tuttavia mostra dei tratti di umanità e senso dell’onore che lo differenziano rispetto a molti suoi colleghi. Un personaggio idealizzato e pittoresco, probabilmente molto lontano dalla realtà, ma interprete di un sentimento che, almeno sulla carta, la vera Yakuza professa come suo.
E’ curiosa una differenza rispetto i titoli occidentali: in Yakuza non si usano pistole, bensì si combatte con calci e pugni, in risse molto feroci. Questa scelta deriva dalla rigida legislazione giapponese sull’uso delle armi da fuoco, le quali sono severamente vietate (sanzionando anche solo il possesso), al punto che, molto sovente, la Yakuza trova più comodo ricorrere a coltelli o alla forza bruta per svolgere le sue attività senza attirare le forze dell’ordine.
Basti pensare che nel 2006 in Giappone sono morte soltanto due persone a causa di armi da fuoco, mentre nel 2008 “addirittura” 11. Logico che un simile aspetto si traduca nelle meccaniche di un videogioco che punta molto al realismo, segnando uno stacco, non soltanto culturale, rispetto i “cugini occidentali”. Yakuza inoltre è apprezzato anche per l’estrema cura con cui ripropone l’ambiente urbano del suo paese. Il prologo Yakuza 0, ambientato negli anni 80 è previsto per Playstation 4 nel corso del 2017 in Europa, mentre il sesto capitolo è attualmente ancora in lavorazione per la stessa console.
Grand Theft Auto – GTA
Il videogioco che riesce a frantumare ogni record di vendite (e di polemiche) ad ogni sua uscita. Tuttavia non è sempre stato così. Ben pochi utenti seguono la serie dai suoi esordi, precisamente dal 1997, quando lo studio Rockstar North si chiamava ancora DMA Design. I primi due GTA vengono pubblicati su PC e Playstation 1 e sono molto diversi da come siamo abituati a conoscerli. Il gioco consentiva di guidare e muoversi a piedi, ma attraverso una visuale bidimensionale a volo d’uccello, lontana dalla spettacolarità e del realismo attuale. Ciò era dovuto ai limiti tecnici delle console 32 bit, che ancora non consentivano di gestire liberamente ambienti tridimensionali così vasti da consentire l’esplorazione libera. Per il salto tecnico che consente l’impostazione odierna, bisogna aspettare Ottobre 2001 con l’uscita di Grand Theft Auto 3. Da lì in poi la consacrazione a fenomeno di culto. Difficile dire qualcosa che in molti già non sappiano di questa serie, tuttavia è bene sottolineare come i fratelli Houser (i creatori) non abbiano fatto mancare spunti narrativi interessanti per non celebrare la figura del malvivente. Caso lampante è GTA 4, in cui Niko Bellic rappresenta una parodia di quello che è il sogno americano sbandierato dai media: ovvero l’idea che, in America, chiunque possa avere successo partendo da zero. La parabola di Niko in realtà è l’esatto opposto: giunto negli Stati Uniti dopo un burrascoso passato da militare in Serbia, trova ben poche opportunità mentre cerca di lavorare onestamente, mentre invece è proprio l’attività illegale a trascinarlo e ad offrirgli maggiori ricompense. Una metafora che ironizza su come i buoni propositi della civiltà statunitense spesso non trovino attuazione nella realtà vissuta dalla gente comune. Il crimine viene dipinto come una grottesca trasfigurazione del Sogno Americano, la nuova e unica via di riscatto per i meno abbienti. Un retrogusto pessimista e amaro, che non viene a mancare neanche in altre produzioni come Red Dead Redempion.
In breve gli altri
Il Padrino e Scarface hanno ricevuto un loro adattamento videoludico, cercando di usare licenze famose per corteggiare l’utenza delle saghe sopracitate, senza però distinguersi per un livello qualitativo o un’originalità tale da eclissare i concorrenti.
Payday invece è uno sparatutto cooperativo, in cui sino a quattro giocatori possono collaborare per compiere rapine e sparatorie degne di una scena di “Heat – la Sfida” o di altri film di Michael Mann. Aggiungiamo la particolarità delle maschere indossate dai protagonisti, che ricalcano molto lo stile dei rapinatori di Point Break (pellicola del 1991 che ha ispirato Fast&Furious), per dare un pizzico di personalità a quello che è un buon titolo da giocare in rete, ma solo a patto di farlo con altri giocatori umani, pena un’esperienza annacquata da una cpu incolore.
Kane&Lynch invece si basa sulle rocambolesche gesta dell’omonimo duo. Il primo dal carattere duro e ruvido, il secondo invece uno psicopatico capace di mettere a disagio le persone. Il secondo capitolo delle loro avventure (Dog Days) racconta una storia densa di violenza e situazioni crude, narrate tramite una grafica che cerca di replicare l’effetto di una telecamera a mano e far sembrare l’azione il risultato di una ripresa amatoriale da “real-tv”.