Capiamo che il settore dei videogiochi si sta equiparando ad altri come calcio o politica per un semplice motivo: la polemica della settimana, solitamente basata su questioni da nulla, tanto più inconsistenti quanto grande è il polverone che sollevano. Ultima in ordine, quella riguardante la pubblicità di Alpitour, che presentando un bambino che gioca sulla spiaggia e indicando tale attività come preferibile ai videogiochi, si è valsa lo sdegno di molti giocatori, i quali hanno biasimato l’operatore turistico. Tuttavia si è trattato davvero di un caso denigratorio nei confronti del media videoludico? No, e per ottime ragioni.
Iniziamo specificando che chi scrive, è un videogiocatore di lunga data (dalle console 8 bit) e ha avuto modo di assistere con un posto in prima fila a praticamente tutte quante le campagne denigratorie a cui è stato sottoposto il videogioco nel corso dei decenni. E si intende quelle veramente pregiudizievoli e perniciose nel dipingere in modo negativo il videogioco. Basti citare quella contro il Nintendo NES, tacciato di estraniare i bambini e lasciarli in stato catatonico peggio della televisione. Resident Evil 2, considerato un gioco che incitava all’uso delle armi da fuoco per sparare contro le persone.
Rule of Rose, descritto in maniera sensazionalistica dal periodico Panorama al punto da distorcerlo e confondere una sequenza narrativa horror non interattiva come lo scopo del gioco. Come tralasciare Grand Theft Auto 5, accusato con fior fior di interrogazioni parlamentari di essere inadatto ai bambini, salvo non considerare che è un prodotto indicato per un pubblico adulto da un sistema di certificazione , al pari di molti film. Il sottoscritto inoltre è sempre stato un sostenitore della dignità autoriale del videogioco e del fatto che possa essere un contenitore di elementi artistici, persino al punto da scrivere uno speciale in cui ritenevo inadeguato il taglio commerciale e pubblicitario assunto dalla cerimonia dei Game Awards, per celebrare in modo credibile i valori creativi all’interno del media (leggibile a questo indirizzo ). Premesse dovute a specificare che in trent’anni non me ne sono persa una di queste polemiche, e al tempo stesso ho un’idea del videogioco rispettosa e aperta al valore che può raggiungere.
Tuttavia ora mi trovo a difendere Alpitour e la sua pubblicità perché non rientra in nessuno di questi casi e anzi, ciò che ne è scaturito è un segno non di un clima retrogrado legato alla visione dei videogiochi in Italia, quanto di come questa scena stia assumendo una brutta china. Il primo motivo è che il caso Alpitour non è minimamente paragonabile a quelli citati sopra. Gli episodi menzionati sopra avevano in comune una rappresentazione distorta del videogioco come strumento e una narrativa che implicava in modo accusatorio che fossero negativi e capaci di istigare comportamenti deplorevoli, se non addirittura suscitare forme patologiche con diretta conseguenza di un loro utilizzo anche equilibrato.
Alpitour invece si è limitata a proporre una forma di intrattenimento diversa, quel giocare tipico dei bambini tra la sabbia e le onde, come alternativa preferibile ai videogiochi. Che cosa ci sarebbe dunque di denigratorio nel dire che ci sono altri modi, forse più coinvolgenti di divertirsi? E’ stata forse attaccata direttamente la qualità di certe opere? E’ stato suggerito che giocare ai videogiochi ha implicazioni negative?
Niente di tutto questo. Si è solo fatto appello al fatto che per un bambino piccolo, giocare all’aria aperta, potendosi agitare a piacere per sfogare tutta la vivacità e il brio tipici di quell’età, sia forse la soluzione migliore per riempire il tempo estivo. E che certe attività nel mondo reale possano coinvolgere e divertire persino più di un videogioco, non c’è niente di male nel sostenerlo. D’altronde il videogioco parte come rappresentazione virtuale e surrogata della realtà, pertanto è lecito dubitare che possa avere pari coinvolgimento fare qualcosa in un videogioco e farlo nella vita. Scandalizzandoci per il messaggio di Alpitour dovremmo allora scandalizzarci anche ogni volta che qualcuno sostiene che giocare a calcetto con gli amici al campetto possa essere più divertente di una partita a FIFA. Bisognerebbe scandalizzarsi perché qualcuno ritiene che un’escursione con arrampicata in montagna sia più eccitante che non farlo in Uncharted, oppure che guidare una Ferrari dal vivo sia meglio che non farlo in Gran Turismo o Forza Motorsport. E via dicendo. Non c’è niente di male nel preferirlo ai videogiochi e per quanto si possa condividere o meno, rientra in quella normale divergenza di opinioni tollerabile.
La situazione invece è sfuggita di mano, dimostrando invece come la nostra categoria rientri ancora largamente nello stereotipo da cui invece sostiene di essersi affrancata o di non averne mai fatto parte in primis. Tanto per cominciare il fiume di indignazione facile che trabocca ad ogni occasione in cui il videogioco possa anche solo sembrare “sotto attacco” è indice di una “sindrome da lesa maestà”, tipica di chi tende a prendere le cose, sopratutto sé stesso, troppo sul serio. Senza un pizzico di ironia o di tolleranza verso le opinioni di chi è anche solo diffidente sul tema, si rischia invece di assomigliare proprio alla categoria pomposa e boriosa che trasudava sdegno e sprezzo nei confronti dei videogiochi, semplicemente spostando un certo tipo di atteggiamento al proprio media di riferimento. E ci tengo a precisare che il sottoscritto ha vissuto in pieno l’epoca in cui definirsi videogiocatore era una specie di tabù, capace di suscitare imbarazzo sociale, ma forse proprio per quella ragione è importante comprendere e non cadere nelle stesse intransigenze ed eccessi di chi ci biasimava.
In secondo luogo attaccando Alpitour perché sostiene un primato della vita vera, rispetto al videogioco, si va a confermare in pieno il triste luogo comune che vorrebbe il videogiocatore medio come un omino chiuso nella sua stanza, infastidito dall’interazione con altre persone e dallo stare all’aria aperta, al punto da essere un asociale pallido, un’anticamera dell’ikikomori nipponico (i reclusi domestici volontariamente). Trent’anni e oltre di discussioni accorate per cercare di scardinare tale pregiudizio e poi eccoci a confermarlo in pieno, non appena ci si ritrova in posizione solida e il videogioco è il carro su cui non bisogna più vergognarsi di salire. Dunque scandalo : abbiamo assistito sui social a processioni laiche di videogiocatori pronti ad elargire indignazione e sdegno in modo sardonicamente simile a quello con cui i “benpensanti” emettevano precedentemente giudizi ritenuti fastidiosi.
E’ veramente questo ciò che la categoria vuole diventare? Pensando che basti pronunciare un banale meme come “Ok, boomer!” per essere automaticamente al riparo da ogni errore e pregiudizio? Per sentirsi aperti e non chiusi nel pensiero?