Akira Toriyama ha avuto un’impatto gigantesco nel mondo dei manga e dell’animazione giapponese, inutile negarlo. Le sue opere sono un successo editoriale, adattate in serie televisive replicate per anni, sino a giungere anche nel mondo dei videogiochi, non soltanto con licenze derivate dai suoi fumetti, ma persino con collaborazioni che lo coinvolgono come ideatore ed illustratore presso case di sviluppo del calibro di SquareSoft (l’attuale Square-Enix).
Dragon Ball
L’opera maestra di Akira Toriyama, la serie che ha ridefinito il genere di arti marziali e combattimento, che ha ispirato il mitico Hadoken di Street Fighter e di lì in avanti, plasmato i picchiaduro bidimensionali prima ancora di diventare lei stessa un videogioco (provate ad immaginarli senza le bolle).
Visto che su Dragonball c’è sufficiente materiale per uno speciale apposito meglio sintetizzare citando i capitoli essenziali.
Se nell’epoca 8 bit compaiono avventure testuali abbastanza statiche più simili a giochi di ruolo, sui 16bit Dragon Ball inizia a mostrare la sua vera essenza: scontri 1contro1 in cui si potevano scagliare onde Kamehame da un lato all’altro dello schermo e spostarsi tra la terra e il cielo. Questa impostazione si espande attraverso i vari Butoden e Budokai Tenkaichi, sino ai recenti Raging Blast e Xenoverse, adeguandosi ad ogni salto generazionale, dagli sprite bidimensionali, ai poligoni tridimensionali, sino all’utilizzo dello stile cel-shading di Battle of Z. Ogni console ha ricevuto il suo gioco di Dragon Ball e la si può considerare una delle licenze più sfruttate nel media videoludico, pur non garantendo sempre dei risultati paragonabili alla sua fama. Se si eccetuano gli ultimi capitoli, dotati di giocabilità solide e coinvolgenti, i primi risultati erano abbastanza ingessati e privi di spessore, relegandosi spesso a prodotti di fan-service dedicati ai soli appassionati delle sette sfere.
Origin e La Vendetta di Re Piccolo invece escono su Nintendo DS e WII e sono degli interessanti giochi d’azione con elementi platform e d’esplorazione che riportano alla varietà di situazioni della prima stagione delle avventura di Goku.
Chrono Trigger
Uno dei j-rpg più celebrati di tutti i tempi grazie alla supervisione di Sakaguchi (creatore di Final Fantasy), le colonne sonore di Uematsu (già autore delle musiche di molti jrpg Squaresoft) e le matite di Toriyama. Chrono Trigger offriva un sistema di combattimento elaborato, dei personaggi graficamente molto diversi tra loro e accattivanti oltre che una trama complessa in cui avventurarsi in molteplici epoche temporali al fine di scongiurare il disastro causato dall’entita chiamata Lavos nel 1999.
Tra gli eroi può citare Glenn, il cavaliere tramutato in rospo antropomorfo, che ricorda il principe-ranocchio della fiaba o Ayla, la donna delle caverne che combatte con uno stile animalesco. Nonostante eroi e antieroi come Marle e Magus, si rifacessero a tipologie classiche, la loro caratterizzazione è riempita con il carisma giusto. La squadra è una delle più variopinte ed eterogenee nella storia dei gdr, composta da un eroe, una scienziata, una principessa intraprendente, uno stregone, un cavaliere rana, un robot e una donna primitiva.
Sfruttando l’espediente del viaggio nel tempo, ciascuna ambientazione rappresenta un’epoca diversa ben identificabile (preistoria, medioevo, era del bronzo, futuro tecnologico), alternandosi secondo uno schema non lineare, tutto a favore della qualità della narrazione che lascia il giocatore sempre in attesa del prossimo sviluppo. Si tratta di uno dei primi titoli ad implementare finali multipli (ben 12, nonostante alcuni siano variazioni di altri).
Dopo l’edizione Super Nintendo del 1995, alle versioni per Playstation 1 (sulla raccolta Final Fantasy Chronicles) e Nintendo DS vengono aggiunte delle sequenze animate che esprimono tutto lo stile del celebre mangaka, oltre che un paio di dungeon extra nella conversione su portatile del 2008. Chrono Trigger rimane tutt’oggi uno dei j-rpg migliori di sempre, grazie alla sua struttura articolata frutto di una progettazione d’eccellenza.
Tobal N.1
Prodotto sempre da Square (per PSX nel 1996), metà picchiaduro tridimensionale, metà dungeon crawler, Tobal fu un prodotto eclettico, esponente di un’era in cui le nuove tecnologie erano accompagnate da una maggior sperimentazione da parte delle grandi case. Il sistema di combattimento permetteva una piena libertà di movimento sul quadrante, potendo spostarsi in ogni direzione, correre, saltare e dividere gli attacchi tra alti, medi, bassi e prese, con più immediatezza rispetto ai picchiaduro 3D su base lineare (come Tekken o Virtua Fighter, per intendersi). Questo sistema però non raggiungeva il tecnicismo dei titoli Namco e Sega, risultando troppo arcade ma più accessibile per partite occasionali. A sua difesa però, si può citare una buona differenziazione degli stili di lotta per gli otto personaggi di base (a cui aggiungere i boss sbloccabili).
La vera novità però era la modalità Quest, in cui si utilizzavano lo stesse meccaniche dentro dei dungeon composti da nemici, trappole e piani da esplorare. Un’approccio decisamente originale e fresco rispetto alla totale dominanza di cavalieri, maghi e spade da cui tutt’oggi non ci si discosta neanche a cannonate.
La trama vedeva vari sfidanti scontrarsi in un torneo sul pianeta Tobal, per decidere a chi sarebbero andati i diritti per l’estrazione di un minerale prezioso: il Molmoran. Nonostante il puerile pretesto per giustificare la storia, i protagonisti erano esteticamente pregevoli e meritevoli di figurare in un manga a loro dedicato, spaziando tra lottatori umani, alieni e robot che Toriyama sapeva ben tratteggiare, come dimostrato nella serie Z. Tecnicamente il gioco era all’avanguardia per il 1996, girando a 60 fotogrammi al secondo e con una risoluzione di 640×480.
Anche se “il nostro” non fu direttamente coinvolto, il seguito Tobal N.2 uscì in concomitanza con il dual shock, introdotto solo qualche anno dopo rispetto l’uscita delle console 32 bit. Le due levette analogiche, oggi imprescindibili , difatti vennero introdotte sui nuovi modelli di joypad per sfruttare al meglio i comandi dei giochi tridimensionali che si erano fatti sempre più complessi rispetto i timidi approcci degli inizi. La modalità Quest fu allargata, introducendo sei dungeon diversi ed elementi da gdr, come città esplorabili dove trovare negozi in cui comprare oggetti e locande in cui ripristinare l’energia. Sconfiggendo i mostri si recuperavano denaro e bottino oltre che punti esperienza con cui migliorare selettivamente le statistiche del nostro lottatore, scegliendo se potenziare ciascun braccio, gamba o i valori della parata e delle prese. I mostri sconfitti in questa modalità inoltre potevano essere usati nella fase versus, arricchendo la rosa selezionabile sino a 200, scelta però fittizia visto che molti erano semplici cambi di colore su modelli dotati di aspetto e mosse identiche. Un piccola soddisfazione nel poter giocare con il Chocobo fu riservata agli appassionati di Final Fantasy.
Go! Go! Ackman
Tra le serie minori Go! Go! Ackman ha riscosso sufficiente apprezzamento in patria da giustificare ben tre platform usciti su Super Famicon (e uno per GameBoy) ad opera di Banpresto. Il secondo e il terzo addirittura a cinque mesi di distanza tra luglio e dicembre 1995. Il motivo sta nel passo falso commesso col secondo capitolo, a detta di molti inferiore rispetto al primo, a cui si è rimediato in fretta con un terzo più conforme alla qualità del debutto. In questi giochi si controlla il piccolo demone Ackman durante le sue perfide imprese, accompagnato da un pipistrello rosso che gli fa da aiutante lungo diversi livelli popolati da nemici assolutamente bizzarri come angeli rockettari e un poliziotto fuoriuscito dai Village People. Trattandosi di un licenza sconosciuta al di fuori del Giappone Go! Go! Ackman è rimasto un’esclusiva del pubblico nipponico senza godere di un’adattamento occidentale.
Dragon Quest
Un marchio di culto, che sfonda i milioni di copie vendute ad ogni sua uscita sul suolo nipponico. In occidente invece una buona serie jrpg, apprezzata ma non divenuta fenomeno di massa come in patria. Conosciuta come Dragon Warrior nelle sue prime conversioni americane (salvo poi uniformarsi al nome originale anni dopo), questa saga è firmata da Enix, la casa di sviluppo che si fonderà con la rivale Squaresoft diventando la Square-Enix che tutti conosciamo.
Il merito di Dragon Quest è quello di aver letteralmente creato il genere j-rpg, prendendo ispirazione dai classici occidentali, ma stravolgendo diversi fattori secondo un’ispirazione tutta personale. Il quinto capitolo introduce l’opzione per reclutare mostri e usarli nella propria squadra, similmente a Shin Megami Tensei, anticipando di anni il concetto alla base dei Pokemon Nintendiani.
Dragon Quest però non brilla per originalità, limitandosi a riutilizzare un’ambientazione fantasy classica, rinfrescata solo dal variopinto e fantasioso design e bestiario creato da Toriyama (tra cui il famoso blob azzurro che ricorda gli escrementi rosa sorridenti della demenziale “Dr.Slump&Arale”) in ogni capitolo, glissando le sperimentazioni futuristiche, fantascientifiche o anche solo le influenze steam-punk di Final Fantasy.
Nel corso dei decenni le meccaniche hanno sempre garantito archetipi rodati, diventando l’equivalente giapponese dei gdr fantasy occidentali ma smorzando l’azione negli scontri, gestiti come battaglie in prima persona, senza un’animazione reale degli attacchi, un pò come avviene nei dungeon crawler come Etrian Odissey.
Da questo gioco sono stati tratti manga e serie animate (e non il contrario, sorprendentemente), oltre che rappresentazioni con attori reali, concerti e locali tematici a dimostrazione del grande apprezzamento riscosso, arrivando ad entrare nel Guinness dei primati come primo videogioco ad aver ispirato un balletto. Pare inoltre che all’uscita di ogni nuovo episodio si verificassero picchi di assenteismo scolastico e lavorativo, fatto impressionante, specie considerando la rigida dedizione nipponica per la disciplina ed il lavoro.
Blue Dragon
Su Xbox360 si riunisce la squadra di Chrono Trigger (Sakaguchi, Uematsu e Tori) ma senza raggiungere il risultato precedente. Blue Dragon rimane un buon gioco di ruolo ma non riesce a snocciolare una trama abbastanza epica e non sviluppa molto i buoni spunti legati alla giocabilità. Il canovaccio propone un gruppo di ragazzini, lanciati in una missione per salvare il mondo grazie a delle sfere magiche che conferiscono loro l’uso di alcuni avatar dalla forma animalesca (il drago blu del titolo, oppure una tigre, un minotauro, etc). Poche sorprese quindi, specie lungo una storia che non sorprende in modo particolare nè presenta comprimari degni di nota. Migliore l’idea di impiegare gli avatar in combattimento al posto dei protagonisti e assegnare loro delle classi personalizzabili. Scelta interessante che alla lunga però appiattisce le differenze tra i membri del gruppo. Anche gli equipaggiamenti denotano idee coraggiose, come la rimozione di armi e armature, sistema snello e non necessariamente negativo, che spezza la routine di un sistema sin troppo ricorrente nei gdr. Anche l’aspetto dei personaggi non brilla per originalità, rivelandosi al di sotto dei livelli qualitativi a cui ci aveva abituato il fumettista e mancando dell’ispirazione passata.