Lasciamo una testimonianza della nostra esistenza in SEASON: A letter to the future, il titolo della nostra recensione giocato nella sua versione per console PS5. Vi devo confessare che ne avevo proprio bisogno di un’esperienza come quella regalata da Scavengers Studio. La software house canadese ci porta un mondo fatto di scoperte, in sella ad una bicicletta e muniti di polaroid e microfono. Senza il concetto di missione, solo con un numero minimo di attività da smarcare. Senza i cattivi a darci una caccia, senza il concetto di crescita e di punti esperienza, ed annosi problemi tra grafica e prestazioni.
Nel panorama videoludico mondiale arriva questa sana iniezione di pace e tranquillità, che dura quanto una stagione. Un termine che spesso ricorre nel gioco e a cui non viene fornito un significato ben specifico. Si intuisce il senso, sino ad arrivare alla decima ora di gioco (8/9 se avete fretta di sapere come va a finire) quando l’arcano viene svelato. Difficilmente ricomincerete il gioco una volta visto l’endgame. Sicuramente, nei giorni, a venire ripenserete spesso e volentieri all’avventura vissuta in compagnia di Estelle.
Il gameplay tipico del walking simulator viene interrotto dalla spiccata vena narrativa, ed è qui che si manifesta il primo vero grande rammarico di questo titolo. L’assenza di una localizzazione in italiano, ahime, pesa come un macigno. Per quanto la terminologia utilizzata non sia di difficile comprensione, non è facile cogliere nel profondo il vero messaggio che il gioco ci vuole comunicare. E non c’è Google Translate che tenga, anche perché staccare gli occhi dagli scenari non è facile.
Per un’amante della fotografia come me, ho provato enorme rancore verso il senso di libertà della protagonista. Ed è stato bello – con tutti i suoi pro e contro del gameplay – mettere da parte le preoccupazioni e le responsabilità di cui faccio mi faccio carico ogni giorno e farmi una sana pedalata, inseguendo lo scatto perfetto. Quello che vale una stagione. Detto ciò, vi lascio alla recensione di SEASON: A letter to the future, titolo, vi ricordo, giocato nella sua versione per console PS5.
Il racconto di una testimonianza
Ogni videogioco ha un preciso scopo, che in parte coincide con le dinamiche di gameplay previste dal genere. Anche Season: A letter to the future non è da meno, anche se queste non vengono dichiarate in maniera chiara. Si va a tentativi, o meglio, si viene trascinati dalla marea di quello che possiamo definire quasi un walking simulator. O forse è meglio dire cycle simulator. Ma andiamo con ordine, e scopriamo quali sono gli elementi cardine del gioco.
Interpretiamo i panni di Estelle, una giovane che sente di avere un grandissimo peso sulle sue spalle, quello di lasciare una testimonianza prima del termine della stagione. Come se l’esistenza della vita fosse racchiusa in cicli di durata prestabilita, già sapendo quando arriva il nostro turno. Non è un discorso legato alla vita e alla morte, ma proprio al concetto stesso di scopo ed esistenza. E non mi dilungo oltre, perché già mi sento in colpa per aver spoilerato più del dovuto.
Dopo aver salutato la madre, Estelle recupera un microfono ed una polaroid (macchina fotografica modello vintage) e inizia a fare una specie di “rodaggio” nei viottoli di Caro Village. Una sorta di tutorial insomma, rispetto quello che ci aspetterà nel gioco. Un microfono per catturare i suoni, la fotocamera per immortalare dei momenti ed un diario dove annotare tutto e sistemare i vari elementi grafici.
Non si tratta di raccontare solo la nostra storia, ma anche di cogliere tutti i frammenti di vita che gli altri hanno lasciato prima di noi. Testimonianze di altre esistenze che meritano di essere ricordate ai posteri. Ad aiutarci in questa missione c’è una sorta di to-do-list che propone gli obiettivi minimali da raggiungere in quello frangente di mappa. Certo, le cose da fare non sono chiarissime e il rischio di dimenticare qualcosa di importante per strada è dietro l’angolo.
Pedalare in completa libertà
Dopo aver salutato il nostro amato Caro Village (che guarda caso si trova un ermo colle, giusto per restare in tema citazioni d’autore), troviamo un bella rastrelliera di biciclette, tutte a nostra disposizione. Scegliamo il colore che più ci aggrada, ed a bordo di quella che sembra un restyle moderno della Graziella si parte senza meta verso l’ignoto. Non essendoci indicatori a video e mappe si segue la strada, che appare senza deviazioni lungo il percorso.
Ovviamente, ma solo se noi lo vogliamo, si possono fare delle tappe intermedie. Punti di interesse, rovine di quella che sembra un sorta di insediamento urbano, rumori che catturano la nostra attenzione (e che forse è il caso di registrare), scorci fantastici da immortalare con uno scatto. Sono cose che nessuno ci invita a fare, ma si fanno di propria spontanea volontà. E guarda caso, nell’immediato si scopre che avevamo ragione. Domanda: tutto questo, secondo voi, è un pregio o un difetto del gioco? Nell’epoca del “tutto e subito”, viene quasi da dire che è un aspetto positivo del gioco. Mia modestissima opinione, lo trovo un interpretazione fantastica del concetto stesso di liberta del gameplay.
Se da un lato elogiamo l’aver sfruttato al meglio le feature del feedback aptico e dei trigger adattivi del DualSense su PS5, da un’altra devo constatare la presenza alcuni bug piuttosto evidenti in fase di gioco. In più di un’occasione sono rimasto vittima di alcune compenetrazioni poligonali che mi hanno costretto a lasciare la bici per strada e confidare in un respawn del mezzo. Solo in un’occasione mi è toccato riavviare il gioco, ma è stato un episodio sporadico.
Purtroppo, nel mio caso, il vero nemico è stata l’assenza di una localizzazione in italiano. La spiccata vena narrativa del gioco meritava di essere colta nel migliore dei modi, senza ricorre ad espedienti vocabolaristici del caso. La mia poca conoscenza della lingua inglese è stata una barriera di ingresso, in un tempo in cui le barriere sono divenute sempre più uniche che rare.
Una dimensione artistica d’autore
Prima di lasciarci, occorre spendere due parole su quello che ritengo il vero punto di forza di SEASON: A letter to the future, ovvero la sua dimensione artistica. Lo stile grafico scelto è quello del cell shading, a metà tra l’anime e il comics. Di solito è una scelta infelice quando si devono ad andare a disegnare e caratterizzare paesaggi ed ambientazioni, ed invece quelli di Scavengers Studio mi smentiscono “di brutto”. Certo, non ci dobbiamo aspettare una caratterizzazione del texture da paura, ma il contesto regala talvolta dei quadri d’autore. Immagini e momenti che ricorrono ancora adesso, e penso che succederà ancora per molto tempo.
La recensione in breve
Il viaggio raccontato in SEASON: A letter to the future ci lascia riflettere su alcune questioni che riguardano il gaming moderno. Scavengers Studio non fa altro che costruire delle ambientazioni poetiche, e metterci dentro un personaggio che ha voglia di raccontare una storia. Siamo pronti e preparati ad ascoltare questa storia (al netto dell'assenza della localizzazione in italiano)?
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Voto Game-Experience