C’è qualcosa di irresistibilmente poetico – e, per certi versi, malinconicamente disperato – in Rusty Rabbit. Un cuore fragile nascosto in una manciata di rottami, che pulsa dal desiderio di raccontare una storia post-umana senza eroi, dove i protagonisti non sono cavalieri o semidei, ma conigli eredi inconsapevoli di una civiltà collassata. Non c’è gloria, qui, solo ruggine frammista ad un’esistenziale rassegnazione, superstizione e una memoria frammentata che si sgretola sotto il peso del tempo.
Nitroplus, studio conosciuto per visual novel di culto come Steins;Gate e Psycho-Pass, si getta nel vuoto con un esperimento intimo e coraggioso: un action platform 2.5D in salsa Metroidvania, Rusty Rabbit, prodotto da Perfect World. Un progetto minore, forse, che non brilla certo per originalità ma mosso da un’anima ben più grande del suo budget. E che, nonostante le proprie imperfezioni, riesce comunque a colpire a modo proprio. Ma scopriamone di più, con la nostra recensione di Rusty Rabbit.
L’eterno ciclo della memoria
La struttura ludica di Rusty Rabbit ricalca in modo lineare i dogmi del metroidvania: si esplora, si combatte, si raccolgono materiali per potenziare un set svariato di skill e si torna sui propri passi grazie ad abilità sbloccate strada facendo. Una formula collaudata e funzionale, senza particolari fronzoli ludici e immediata sin dalle battute iniziali. Dove però il titolo opta per una via differente è nel proprio ritmo: ogni run in profondità verso il bioma successivo è più simile a un rituale che a un’incursione, con un gameplay ciclico fatto di esplorazioni giornaliere e ritorni alla base, che trasmette una routine alienante e affascinante allo stesso tempo.
Protagonista di questa discesa nel profondo è Stamp, un vecchio coniglio cinico e vittima di una costante abitudinarietà, che ha abbandonato il tempo degli eroi per rassegnarsi ad un’invariabile sopravvivenza. Un antieroe che vive in un mondo fatto di rottami: gli stessi che, a bordo del proprio mech, trivella alla ricerca di tesori dei “giganti” e di materiale con cui aggiornare il proprio bolide; gli stessi che, oramai a malapena, si mantengono uniti trasformando sempre di più la sua coscienza in memoria.
Stamp, in compagnia più o meno forzata di un gruppo di giovani coniglietti trivellatori (i BB’s, spalla comica di un personaggio che ormai ha perso anche la voglia di sorridere) si ritrova quasi per caso alla ricerca della figlia, scomparsa per delle divergenze mai risolte, il cui ricordo riaffiora quasi accidentalmente analizzando un vecchio terminale nel corso di un’esplorazione. Una motivazione che apre spiragli inaspettati di umanità in un protagonista all’apparenza soffice solo in superfice, e che nell’arco di pochi minuti lo rende molto più profondo e inaspettato del previsto.
Combattere, esplorare, progredire
Cuore del gameplay di Rusty Rabbit, come prevedibile, è l’inseparabile mech di Stamp. Scavare tra le pareti rocciose, tra i cumuli di rifiuti e tra i container abbandonati dalla precedente civiltà è fluido, gratificante, e offre una verticalità interessante al level design. In poco tempo ci si muove tra rampe, caverne, tunnel artificiali e strutture collassate con una naturalezza che tradisce la cura riposta nel movimento e nel ritmo.
Il sistema di combattimento è semplice ma funzionale. L’arsenale a disposizione di Stamp consta di quattro differenti “strumenti di lavoro”, che possono essere equipaggiati all’istante con la pressione dell’apposito tasto a seconda della specifica azione da compiere: la trivella, affidabile e rapida, il fucile, utile contro nemici multipli o corazzati, la spada, tanto veloce quanto letale, e il martello, lento ma devastante. Ad esclusione del fucile, unico item a finalità interamente offensive, tutti gli altri equip di Stamp possono essere utilizzati in sede di esplorazione per aprire vie inizialmente precluse o per rompere ostacoli insuperabili nelle battute iniziali del gioco (la spada, ad esempio, permette di tranciare cavi o liane speciali, mentre il martello è perfetto per blocchi più resistenti). Ciascuna di esse, ovviamente, sarà potenziabile – sia da Stamp, purché abbia a disposizione i rottami e le risorse necessarie al crafting/upgrade, sia presso il laboratorio del simpatico Jed, a patto di recuperare i giusti blueprint sparsi per i livelli o ottenibili tramite eventi specifici.
Posto che la consegna delle armi a Stamp (normalmente veicolata dall’incontro con qualcuno dei BB’s) avviene in modo lineare con la progressione della storia (non ci sarà quindi il rischio di restare bloccati senza l’equip necessario, a meno ovviamente di perdersi all’interno di uno dei biomi), appare evidente come, rispetto a mostri sacri del calibro di Hollow Knight, il ruolo di questi oggetti nell’economia di gioco sia più contenuto – specie in termini di progressione: l’apertura di nuove vie è fisiologicamente dettata dai tempi narrativi del titolo, laddove l’esplorazione in backtracking, salvo per un paio di biomi preclusi al primo giro, sfiora quasi il facoltativo in quanto permette di mettere mano più a collezionabili rari (non solo blueprint o potenziamenti, ma anche elementi cosmetici) piuttosto che garantire una pura progressione. Sicuramente garantiscono un approccio diversificato ai combattimenti e, ovviamente, l’accesso a microaree utili ai fini della raccolta di materiali, ma non stiamo parlando di un’alterazione della geografia del mondo di gioco come visto altrove.
Lo stesso discorso si applica alle abilità base, anch’esse sbloccate in progressione narrativa, del mech di Stamp. Tanto il dash come il gancio, per citare le prime skill con cui prenderemo dimestichezza, aumentano sì le capacità esplorative del nostro eroe, ma difficilmente obbligano a tornare in aree precedentemente visitate, se non per curiosità o per fini completistici. Si tratta di un approccio più lineare e intuitivo, che al netto del gusto personale denota una scelta chiara da parte del team di sviluppo: la volontà di far vivere al giocatore un viaggio interiore, senza la necessità di farlo impazzire all’interno di un rebus topografico di difficile lettura.
Stride un po’, in questo scenario, la scarna mappa di gioco (che ricorda più un livello di VVVVVV che una mappa vera e propria), che risulta poco leggibile specie nelle battute finali: sarà necessario uno sforzo maggiore di memoria, per ricordare alcuni passaggi critici, laddove l’assenza di indicazioni chiare (ce ne sono poche, e non sempre di facile digestione) tutto fa tranne che aiutare.
Potenziamenti e progressione: luci e ombre
Complessivamente, la struttura del sistema di potenziamento dell’equip fin qui descritta riesce nell’intento di bilanciare positivamente quantità e chiarezza, dimostrandosi funzionale alle meccaniche sia esplorative, sia di combattimento. Proprio quest’ultimo, pur non brillando per innovazione e presentando una certa ripetitività di fondo, offre degli spunti interessanti. Premettiamo da subito che la varietà nemica, così come la resistenza offerta, si attestano su risultati solo soddisfacenti (non aspettatevi troppe tipologie di nemici e, soprattutto, una diversificazione così inaspettata dei relativi pattern di attacco): discorso analogo per le boss fight, ispirate nel design dei nemici ma risolvibili in pochi minuti sia con la giusta combinazione di passive, sia con un paio di “medikit” e annessi gingilli per mantenere in salute il nostro mech.
Quest’ultima rappresenta tuttavia la carta più interessante in uno schema combat decisamente lineare, laddove essere colpiti dal nemico non solo si tradurrà in un calo fisiologico dell’energia vitale, ma anche in uno stallo temporaneo del nostro Junkster – che, a seconda del danno e del nemico, potrà essere impossibilitato a effettuare un dash o, parimenti, si troverà con una potenza offensiva almeno dimezzata (in termini di danni inferti). Sarà ovviamente possibile comprare circuiti per minimizzare il tempo di durata di ciascuna tipologia di malus, usare soluzioni “usa e getta” per annullarne l’effetto istantaneamente, o sfruttare lo skill tree di Stamp.
Bene ma non benissimo anche quest’ultimo, a onor del vero: le abilità sbloccabili, per gran parte passive, sono presenti in quantità esorbitante e abilitano una pletora di bonus, tra cui il danno inferto, il surriscaldamento della trivella, l’efficienza dei moduli energetici per uscire dagli stalli, la quantità di materiali ottenuti dal riciclaggio di parti inutili o, in modo inverso, quella di materiali necessari al crafting. E, ovviamente, molto altro ancora. Nulla di inaspettato e di rivoluzionario, laddove tuttavia alcuni rami risultano pesantemente sbilanciati e altri al limite dell’inutile. Al netto di una presentazione un po’ spartana, a mancare è proprio un feedback che consegue all’evoluzione nello skill tree: la progressione non è visivamente soddisfacente, né tantomeno in grado di trasmettere una vera sensazione di crescita anche dopo ore di gioco. È una curva morbida, più che un’ascesa, che pur funzionando avrebbe forse meritato un pizzico di attenzione maggiore.
Rusty Rabbit, un mondo che parla da solo
Assoluto punto di forza di Rusty Rabbit, senza alcun dubbio, è la componente narrativa. I conigli, un tempo piccole creature inermi ora sopravvissute ad una civiltà umana (i giganti) collassata su se stessa, si sono evoluti al punto da divenire gli unici padroni di ciò che resta del pianeta, costruendo i mattoni di una nuova religione essa stessa fondata sui resti di ciò che era un tempo. Manuali scambiati per bibbie, elettrodomestici divenuti reliquie, icone più o meno celebri dell’era umana assunte a figure mitologiche. Bellissimi, a tal proposito, sono gli intermezzi narrativi di Rusty Rabbit, in cui i conigli si fondono con gli affreschi (tra cui quelli della Cappella Sistina di Michelangelo) in quello che, fuor di metafora, rappresenta un nuovo inizio di civiltà.
Ne deriva un universo tanto assurdo quanto sfaccettato, intriso di una malinconia di fondo che, ai nostri occhi, si mescola a passaggi surreali e a tratti spassosi. La scrittura, opera della penna da Gen Urobuchi (autore di Puella Magi Madoka Magica), non si perde in troppi dettagli (reperibili con quest secondarie, come la raccolta delle carote per la Chiesa o la ricostruzione di bolidi, per avere scorci del passato), ma si limita a suggerire. Non ci sono fiumi di informazioni: solo indizi, frammenti, resti recuperabili da macchinari sparsi nei vari biomi, i D-TAM. Le registrazioni sparse, persino i dialoghi con NPC secondari tratteggiano un mondo decadente, tenero ma malinconico. Stamp, con la sua rassegnazione e la testardaggine con cui continua a scavare giorno dopo giorno, diventa un piccolo specchio dell’essere umano: non cerca la redenzione, ma la memoria.
Dal punto di vista tecnico, Rusty Rabbit non spinge mai sull’acceleratore, senza tuttavia tradire la propria coerenza. Le reminiscenze di Yoji Shinkawa si vedono nel design dei mech, mentre i fondali alternano rovine industriali e scorci minerari con palette che virano a tonalità più plumbee nelle fasi iniziali, per poi tendere al ferro ossidato o al verde rigoglioso (nel giardino sotterraneo) in un crescendo di colori che caratterizza gli scenari finali – come il futuristico laboratorio generico.
Su PS5, il gioco si comporta bene: 60 fps stabili, tempi di caricamento rapidi, nessun bug degno di particolare attenzione. Le animazioni sono funzionali, seppur l’espressività (specie nelle cut scene) non è delle migliori. L’audio, invece, sorprende in modo più deciso, con una colonna sonora composta da synth, chitarre liquide e accenti ambient, capace di creare un tappeto sonoro che accompagna ogni discesa in modo opportuno. Chiude, non certo ultimo, un doppiaggio di pregevole fattura.
In conclusione
Rusty Rabbit non grida proclami. È un titolo che sussurra qualcosa di più profondo di quanto l’apparenza possa cogliere inizialmente, a patto che chi giochi abbia voglia di scoprire e ascoltare. L’avventura di Stamp nelle terribili Smokestack Mountain, arricchita da dungeon procedurali dove fare ulteriore loot e side quest più o meno casuali nascoste tra le casette del villaggio, è un’esperienza diversa, atipica, decisamente più narrativa che tecnica, più emotiva che sfidante. Un titolo imperfetto in alcuni stilemi cardini del Metroidvania, ma allo stesso tempo onesto e sincero. Un titolo dove, tra circuiti arrugginiti e macerie di un passato quasi dimenticato, si intravede ancora quella scintilla di umanità. Persino sotto il pelo morbido di un coniglio che non si arrende.
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Voto Game-Experience