Dopo aver creato The Evil Within, Shinji Mikami, già artefice del primo Resident Evil, si è leggermente distanziato anche dalla sua nuova creatura, lasciando ai suoi Tango Gameworks il compito di portare alla maturità il suo esperimento.
Sogni mostruosamente proibiti
Mikami difatti abbandona la direzione del progetto per svolgere semplicemente il ruolo di supervisore e produttore esecutivo. Una partecipazione meno stringente quindi, che ha portato questo seguito ad assumere una forma diversa rispetto al suo predecessore, ma senza uscire dai binari del genere survival horror in terza persona. Una necessità e un rischio, la prima da soddisfare, la seconda da evitare ad ogni costo. Su questa dicotomia difatti si sono giocate (e perse) le partite di questo genere videoludico nell’ultimo decennio. Se difatti Resident Evil 4 e Dead Space 1 avevano le capacità di portare nel terzo millennio gli horror, i loro seguiti sono andati diluendo sempre più la formula al punto da sbandare nello sparatutto in terza persona e nell’appiattimento dell’offerta (vedi DS3 e RE6). Al tempo stesso però molti giocatori sentivano la necessità di seguiti che smuovessero le cose, per evitare un’eccessiva ripetitività.
Chi negli ultimi anni ha lavorato ad un survival-horror ha dovuto quindi fare il lavoro di un equilibrista (con buoni risultati, nel caso di Resident Evil 7), cercando di mediare tra il rinnovamento e il rischio di uscire fuori dai binari. E proprio Mikami, ironicamente, si è trovato nella condizione di fare qualcosa di simile con Evil Within, riproponendo la visuale in terza persona, senza puntare su sparatorie esagerate e inserendo un pizzico di stealth per diversificare le meccaniche di gioco e mantenere alta la tensione. Un esperimento che può dirsi riuscito al netto di una difficoltà a volte stringente per alcune tipologie di utenti. Tuttavia è stato forse proprio quell’aspetto a renderlo interessante al pubblico, appoggiandosi sulla stessa contraddizione che ha fatto la fortuna di Dark Souls. Un livello di difficoltà molto ostico, a tratti sbilanciato, che però piace per il suo essere controcorrente in un mercato che ipersemplifica ogni cosa pur di vendere un paio di copie in più.
Masters of Horror
Una premessa lunga, che però serve a comprendere i meriti di Evil Within 2, il quale rinfresca la sua stessa formula, ma senza perdersi per strada. L’investigatore della polizia Sebastian Castellanos difatti deve avventurarsi nella cittadina di Union alla ricerca della figlia creduta morta (evitiamo altri dettagli per non fare anticipazioni), muovendosi in un contesto amplificato che concede libertà tipiche del free-roaming, che ben si sposano in questo episodio con l’aspetto survival.
E’ una ripresa ampliata e migliorata di quanto visto nel discreto Silent Hill Downpour, che pur rimasto in sordina, aveva cercato di offrire una componente free-roaming e delle missioni secondarie dentro questa tipologia di videogiochi. Andare da un luogo all’altro però non è facile, dato che i nemici sono molti e le munizioni poche. Una strada dritta è sicuramente il percorso più rapido per andare dal punto A a quello B, ma comporta un dispendio di proiettili esagerato, oltre che mettere a repentaglio la vita, orientando verso percorsi alternativi. Se nelle fasi iniziali la fauna di mostri è limitata a dei semplici pseudo-zombie, dopo poche ore spuntano tipologie di creature più resistenti e pericolose. Le meccaniche stealth diventano quindi indispensabili e subordinate a mantenere il fattore survival centrale, salvaguardando al tempo stesso lo stato di tensione perenne che è tipico degli horror.
The Cell
La progressione inoltre è ben scandita, alternando momenti in cui l’avanzamento è di ampio respiro e lasciato nelle mani dell’utente, ed altri in cui l’esperienza è mantenuta su un sentiero lineare ma claustrofobico e narrativamente intenso.
Per gli amanti del genere non mancano momenti destabilizzanti nelle sequenze filmate. Inoltre la giocabilità riesce a lavorare in tandem con l’ambientazione, fornendo motivi più che sufficienti per non rilassarsi e infondere nel giocatore quel senso di ansia tanto ricercato dagli amanti del brivido. Da questo punto di vista può dirsi perfettamente riuscito un survival-horror che crea un tale stato d’animo sia grazie alla narrazione, sia grazie alla giocabilità, con entrambi gli aspetti che convergono sulla stessa emozione. Forse i consumatori più voraci potrebbero trovare alcuni colpi di scena abbastanza tipici, per quanto ben fatti. Inoltre levato il telone sullo STEM, si perde parte del fascino misterioso che aveva il primo capitolo, tuttavia gli sviluppatori hanno saputo giostrare le immagini per mantenerne intatta l’efficacia. Evil Within 2 diventa così un incubo lucido, un grumo digitale freddo e opaco, morto ma pulsante, avvizzito ma sanguinante, sorretto da una visionarietà che frammenta e distorce le cose, risultando suggestivamente macabro per quanto non terrorizzante. Un metodo diverso nell’esplorare i risvolti dell’orrorifico che, anzi, è forse persino meno derivativo e che dona più identità a questo seguito.
Shutter Island
Graficamente parlando il motore Idtech5 funziona a dovere, anche se non sempre mostra un grande dettaglio nel definire i volti dei personaggi. Il livello medio è comunque buono e in linea con i risultati di questa generazione hardware. Sulla giocabilità invece si avverte qualche intoppo. Il sistema di combattimento è poco funzionale, al punto da lasciare qualche dubbio che la sua spigolosità possa essere tale unicamente per spingere il giocatore ad evitare un approccio unicamente aggressivo.
I nemici difatti si muovono in maniera sin troppo frenetica, rendendo impreciso il puntamento (specie per i colpi alla testa) anche contro il più semplice degli pseudo-zombie. Un problema questo che sembra comprovato come tale nel momento che anche le uccisioni stealth rischiano di essere vanificate quando, dopo aver camminato a gattoni per arrivare alle spalle di un mostro, questo si gira di scatto per deambulare in un’altra direzione, vanificando tutta la manovra. Gli stessi combattimenti con il coltello risultano molto inaffidabili e fanno rimpiangere la precisione adamantina con cui invece erano gestiti nel rifacimento di Resident Evil 1 o nello 0.
Nonostante le accuse di rigidità dei controlli, che i survival impostati secondo lo stile “tank” potevano suscitare, in quei giochi il sistema di combattimento permetteva prodezze come partite completate usando quasi soltanto il coltello base, a riprova della loro minuziosa efficienza nel gestire ogni armamento.
Questo difetto di Evil Within 2 viene attenuto nelle fasi avanzate, dove potenziando le armi, le cose vengono semplificate. Tale manovra però è possibile solo dedicando del tempo all’esplorazione e al reperimento di materiali con cui costruire gli aggiornamenti. Il sistema però non risulta pesante e non obbliga ad eccessive digressioni dalla missione principale. Forse meno comprensibile è la sua compresenza con lo sblocco di abilità per Sebastian, queste invece ottenibili drenando il fluido verde dai nemici morti, creando un doppio sistema di potenziamenti su cui lavorare. Ottima la longevità, superiore alle 15 ore e capace di intrattenere per un buon lasso di tempo.
Pro
- buona integrazione di meccaniche survival-horror e free-roaming
- interessante ricerca dell’aspetto horror
- longevo
Contro
– sistema di combattimento impreciso e non sempre affidabile