Resident Evil VII ha il curioso primato di aver messo gli appassionati di fronte ad una paura che non erano preparati ad affrontare: quella del cambio di prospettiva.
Si sono spesi molti giudizi da parte del pubblico se questo potesse essere considerato o meno un capitolo fedele alla serie per via del passaggio dalla visuale in terza persona a quella in prima. Tuttavia, dopo esser riemersi dal quel pozzo di oscurità che è Villa Baker, si può affermare con certezza di trovarsi di fronte ad uno degli episodi che più rappresenta le peculiarità di Resident Evil.
Nuova pianta, stessa radice
La questione dietro al cambio di visuale meriterebbe uno speciale a parte, uno in cui parlare di game-design e di cosa identifichi un titolo all’interno di un determinato genere e quali siano i fattori che lo rendono più o meno fedele da giocare rispetto ai predecessori. Un approfondimento necessario vista la durezza di molte sentenze espresse in rete negli scorsi mesi, che denotavano l’associazione di un gioco al marchio “Resident Evil” sulla base di una scelta prevalentemente estetica, senza considerare ciò che ha determinato il cuore dell’esperienza del survival horror di Capcom: la giocabilità!
In questo aspetto Re-VII rassicura molto in fretta il pubblico, rimettendo nelle sue mani tutti gli strumenti tipici, dopo appena un’ora costruita magistralmente per creare e gonfiare una forte tensione persino nel fruitore abituale di horror. Ethan Winters, a tre anni dalla scomparsa, riceve un messaggio della moglie, la quale sembra trovarsi in una villetta sperduta in mezzo alle paludi della Louisiana. Scontato ribadire come questo spazio apparentemente pacifico sia diventato come un’ostrica corrotta, che nasconde al suo interno una perla nera e putrescente, un orrore di cui i padroni di casa, i Baker, sono diventati i custodi.
I primi sessanta minuti segnano un’aggressione fisica al protagonista e psicologica al giocatore, dopodichè si inizia ad attingere alla formula piena (con armi, mappe, chiavi ed erbe mediche), sentendosi costantemente il fiato sul collo. Il senso di minaccia incombente è mantenuto grazie ad una nuova specie di mostri e ai membri della famiglia Baker. I primi fanno le veci degli zombie o delle altre creature infettate dal virus-T, mentre i secondi sono delle versioni intelligenti del Nemesis che tallonava costantemente Jill nel terzo episodio.
In mezzo a tutto ciò le munizioni non sono così abbondanti da far sentire al sicuro. Due o tre caricatori all’inizio sembrano tanti, ma bastano pochi nemici per riportare le scorte ai livelli di guardia e raddrizzare l’inquietudine. Lo scontro a fuoco è quindi la prima rassicurazione sul rientro dalla deriva “sparatutto” tanto criticata nei precedenti RE 5 e 6.
Gli ambienti claustrofobici, i corridoi stretti, gli angoli della casa, e persino i luoghi aperti e soffocati dalla notte tetra non offrono conforto e rendono lo scenario partecipe delle atmosfere che il gioco punta a costruire, contribuendo ad un costante senso di oppressione.
Le meccaniche alla base di Resident Evil
La seconda conferma arriva proprio nella gestione dell’inventario. Non è possibile portarsi tutto dietro e gli storici bauli fanno il loro ritorno, ritrovandoli nelle stanze sicure con il punto di salvataggio e la musica quieta che offre un breve momento di tregua. Combinare gli oggetti consente di ottimizzare al meglio la gestione delle risorse e creare medicamenti, stimolanti o munizioni, dotati di diverse caratteristiche, a seconda della sostanza chimica usata insieme (gialla o rossa). In questo modo una meccanica tipica è stata rivista e ampliata.
La progressione nel corso dell’avventura è scandita da un’impostazione che, ancora una volta, è familiare con quanto vissuto al tempo di RE1. La tenuta dei Baker è tentacolare, si estende lungo una villa, ampia e stratificata, un giardino e una casa abbandonata, creando un itinerario in cui si avanza a piccoli passi, guadagnandosi l’accesso ad un luogo diverso, poco alla volta, grazie un sistema di serrature apribili con chiavi ed enigmi (gustosa la citazione nel procurarsi il fucile a pompa).
Il backtracking tuttavia è estremamente ridotto evitando la ripetitività di alcuni passaggi. Dopodiché si inizia a scoperchiare il vaso di Pandora e scoprire l’origine del male che ha travolto questa tranquilla famigliola della Louisiana, lo si insegue, in luoghi impensati, sino all’epilogo, rivelatore ma beffardo, capace di lasciare addosso dei dubbi amletici mentre scorrono i titoli di coda (dopo circa 10 ore dall’inizio).
Il bello di provare paura
Tutto in REVII è intriso della linfa dei primi Resident Evil e, alla fine, l’unica cosa estranea risulta essere la visuale in prima persona, che però riesce a farsi perdonare amplificando l’effetto orrorifico, al “solo” prezzo di togliere un pò di personalità al protagonista. Ethan Winters difatti è una figura incolore e la sua assenza di connotati non permette di renderlo un’icona come gli eroi passati (che non brillavano per profondità ma almeno restavano impressi per il loro carisma).
Peccato pure per la scarsa varietà di creature affrontabili e per il livello di difficoltà scalato verso il basso dato che “Facile” e “Normale” offrono sin troppi aiuti. Ironicamente settare la sfida a “Manicomio” riproduce le stesse condizioni con cui si giocava negli anni 90, ovvero con i salvataggi ristretti al numero di nastri di inchiostro (qui diventati cassette), minori checkpoint automatici, nemici più forti e rifornimenti più esigui. Una scelta che conferma come la difficoltà nei videogiochi sia scesa nell’ultimo ventennio per venire incontro ai principianti, ma che non trascura i veterani, i quali saranno soddisfatti grazie alla modalità più impegnativa. REVII è accessibile anche da chi voglia avvicinarsi alla serie adesso, godibile a sè stante senza bisogno di conoscere gli altri, ma fedele ad una impostazione classica tutt’oggi molto valida, che è stata aggiornata per smussarne gli spigoli e rendere i controlli e la progressione più agevoli.
La cosmesi dell’orrore e il supporto al VR
Sul versante grafico Capcom ha proposto un nuovo motore: il RE Engine sviluppato appositamente per accompagnare i nuovi capitoli. Che lo studio giapponese abbia sempre
avuto un certo talento nello sviluppare motori grafici proprietari, anzichè ricorrere a quelli esterni, era già confermato da quel MT Framework che si era fatto apprezzare nei primi anni delle console in alta definizione. Il lavoro svolto in questo caso è ancora encomiabile e nonostante qualche lieve sbavatura e una leggera, ma percepibile, mancanza di dettaglio rispetto ai vertici delle produzioni odierne, il risultato complessivo è molto soddisfacente specie considerando che garantisce una risoluzione di 1080p e 60 fotogrammi al secondo. Gli effetti di illuminazione contribuiscono a dare la giusta atmosfera a qualsiasi situazione, dalla luce diffusa e tenute di un salotto al faretto posizionato malamente in uno scantinato.
Discorso a parte per la modalità VR in cui si assiste ad una perdita di dettaglio abbastanza diffusa, dovuta prevalentemente ad un effetto “sfocato” di alcune superfici. Un compromesso necessario per via dei requisiti hardware più esosi richiesti da questa visuale ma che è ampiamente compensato dall’impatto che la realtà virtuale conferisce all’esperienza di gioco. Ogni situazione viene enfatizzata e valorizzata, facendo sentire l’utente davvero presente sul posto e calato nel mezzo della scena. Nonostante siano presenti già parecchie ottime proposte con cui saggiare la realtà virtuale, Resident Evil VII è la prima vera killer-application per VR, il primo anello tra realtà virtuale e produzioni Tripla-A. Gradita la presenza di alcune impostazioni per rendere graduali certi spostamenti per adeguare la fluidità a sensibilità diverse e diminuire il rischio di nausea da movimento in chi ne è predisposto.
Pro
- molto fedele nelle meccaniche di gioco e nei toni al primo Resident Evil
- un survival horror senza eguali nel panorama odierno tripla-A
- ancora più coinvolgente se giocato in realtà virtuale
Contro
- poca varietà di nemici
- protagonista privo di carisma