In principio fu Lily Bergamo. Era il 2013 quando, durante la conferenza Sony dedicata al mercato asiatico, Grasshopper Manufacture presentava al mondo il suo nuovo progetto, esclusiva PS4. Un action game di cui è stato possibile scoprire ben poco, al di là del nome della protagonista, Tae Loroi, prima della cancellazione definitiva avvenuta nel 2014. Poco male visto che dalle sue ceneri è sorto l’odierno Let It Die, free-to-play hack and slash dalla forte componente roguelike nel quale, a detta dello stesso Goichi Suda, Grasshopper Manufacture ha riversato le idee e il concept del compianto Lily Bergamo. Un cambio di rotta influenzato probabilmente dall’acquisizione dello studio, agli inizi del 2013, da parte di Gung Ho, colosso dell’intrattenimento digitale giapponese il cui titolo più rappresentativo è indubbiamente Puzzle & Dragons.
Ma, proprio quando le speranze di vedere Let It Die sulle nostre PS4 stavano venendo meno, ecco l’annuncio a sorpresa del lancio del gioco durante il PlayStation Experience di quest’anno. In fondo siamo in prossimità delle feste e i regali sono sempre ben accetti, soprattutto se a vestire i panni di Babbo Natale è quel folle e visionario quarantottenne meglio conosciuto come Suda 51.
GOICHI “ZIO” SUDA
Anno 2026: la Furia Terrestre, un terremoto di inaudita potenza, ha spaccato il pianeta in quattro macroaree dando vita a una vera e propria apocalisse. Al centro del pianeta, dal nulla, emerge una torre altissima, la Torre di Barb, al cui interno si cela la “Chiave del Futuro”, o almeno così si dice. Cosa sia e se esista davvero non ci è dato saperlo ma tanto basta per spingere il genere umano a lanciarsi in una vera e propria caccia al tesoro. Peccato che il prezzo da pagare in caso di fallimento sia la propria vita…
Infatti la suddetta torre che, per la cronaca, è alta all’incirca 250 metri ed è situata su di un’isola a sud di Tokyo, è disseminata di pericoli e abomini di ogni genere: neanche il tempo di uscire dal vagone della metro che conduce alla struttura e fare qualche passo che… bang! Sei morto. Un bell’inizio per un gioco che, guarda caso, si chiama Let It Die. Ma è tutta qui la trama? Beh, a dire il vero, no. In realtà Il gioco è a sua volta un gioco.
Mi spiego.
Let it Die, nell’universo di finzione costruito da Grasshopper Manufacture, è un titolo pubblicato per l’ormai quasi introvabile Death Drive 128, una console assai particolare sulla quale, appunto, è possibile spellarsi i pollici con il sopracitato titolo. Il tutto all’interno di una “confortevole” sala giochi giapponese, in compagnia di un pro gamer, di un’avvenente signorina e di Zio Morte, uno stravagante personaggio vestito come l’implacabile Falce che non fa sconti a nessuno, tanto meno al giocatore. Per chi ha un minimo di dimestichezza con le produzioni edite da Grasshopper Manufacture, non è difficile capire chi si nasconde dietro quegli occhiali stravaganti e quella tunica nera: lo stesso Suda 51. Un novello Virgilio che, impersonando la Morte, (meno fredda e antipatica rispetto a quello che ci si potrebbe normalmente aspettare) conduce il giocatore nei gironi infernali della Torre di Barb. Schietto, loquace e sempre pronto a ricordare ai giovani avventurieri che, la morte, è sempre dietro l’angolo.
QUANDO “RIMANERE IN MUTANDE” NON È UN SEMPLICE MODO DI DIRE
Fortunatamente, la sua natura free-to-play non ha reso Let it Die un gioco pay-to-win. Non ci sono limiti di tempo né tanto meno acquisti obbligati per continuare la propria avventura, anche se i servizi offerti quando si mette mano al portafogli non sono cosa da poco. Come si diceva poc’anzi, tutto inizia nel vagone di un treno, nel quale verrà chiesto al giocatore di scegliere il proprio avatar. Purtroppo, al di là del sesso, non è presente alcun tipo di personalizzazione, compreso il nome del proprio alter ego che, di volta in volta, verrà assegnato in maniera del tutto casuale. Una scelta che potrebbe far storcere il naso a molti ma che, nell’ottica di Let it Die, costituirebbe un orpello inutile vista l’elevata frequenza con cui si tirano le cuoia.
A ogni dipartita, infatti, il giocatore potrà continuare a utilizzare il proprio personaggio soltanto spendendo la valuta del gioco, le cosiddette Monete Carneficina che, fortunatamente, sarà possibile reperire in grandi quantità all’interno dei piani della torre. Si può comunque usufruire di un servizio per la rianimazione istantanea, ma di questo ne parleremo più avanti.
Il fulcro centrale dell’esperienza, come si può facilmente intuire, è legato a doppio filo con la presenza costante della morte stessa. Ogni volta che si esala l’ultimo respiro, una replica zombie del proprio avatar inizierà a vagare all’interno dello stesso piano della torre con il medesimo equipaggiamento che possedeva prima della morte. Non solo il giocatore a cui apparteneva il personaggio potrà incappare nella sua versione malvagia (non che di norma sia un santo, intendiamoci), ma qualsiasi utente che sta giocando a Let it Die in quella precisa area potrà incorrere nello stesso rischio. Certo, se da un lato questo arricchisce enormemente l’esperienza di gioco, dall’altro la rende estremamente frustrante soprattutto quando, dopo i primi minuti, ci si imbatte in un avatar zombie di livello 30. E posso assicurare che la fuga in Let it Die, non è mai la soluzione. Ogni nemico, infatti, darà la caccia al giocatore fintanto che rimarrà nel suo campo visivo e non sarà raro finire in un vicolo cieco accerchiati da una moltitudine di mostri. Va detto però che, vista la natura procedurale del gioco, non ci vorrà molto a comprendere la struttura di ogni singola stanza, dato che tenderanno a ripetersi senza soluzione di continuità in ciascun piano.
Appena sceso dal vagone e iniziata la scalata alla torre, il personaggio scelto non avrà altro addosso se non un… paio di mutande. Nonostante sia possibile e indispensabile equipaggiare parti di armature per incrementare le proprie statistiche, la nudità sarà la condizione di base e quella più frequente in cui incapperà il giocatore nel corso dell’avventura. Infatti, ogni tipo di equipaggiamento ha una soglia di resistenza estremamente bassa e sarà sufficiente subire qualche colpo ben assestato affinché vada in frantumi. Stesso discorso, purtroppo, vale anche per le armi. Sarà possibile assegnarne al proprio personaggio un massimo di sei per volta, tre per il braccio sinistro e tre per quello destro. Ve ne sono di tutti i tipi e forme: mazze da baseball, pistole, maceti, picconi a due mani, ognuna con il proprio livello di padronanza. Più viene utilizzata una determinata arma e maggiori saranno i vantaggi di cui il giocatore potrà beneficiare, da un semplice incremento della potenza di attacco ad un minore consumo della resistenza. Curiosamente, mano a mano che questa si riduce, il cuore nel petto del personaggio inizierà a tingersi di rosso fino a diventare di un viola intenso generando una temporanea condizione di affaticamento e paralisi.
Nel corso della scalata Zio Morte metterà a disposizione del giocatore una lunga schiera di alter ego (tutti uguali esteticamente), ognuno con statistiche e abilità uniche. Passare dall’uno all’altro, a seconda della necessità del momento, costituisce una delle travi portanti dell’esperienza di Let it Die che mira a focalizzare l’attenzione del giocatore esclusivamente su se stesso e sul proprio modo di approcciarsi al gioco, piuttosto che tentare di farlo immedesimare con un personaggio che, nella migliore delle ipotesi, non sopravvivrà che poche ore.
L’intero gameplay viene poi impreziosito dalla presenza di spettacolari fatality, diverse per ciascun di tipo di arma e utilizzabili esclusivamente quando l’avversario è stordito e versa in condizioni critiche. Infilzare la testa di un nemico con un macete o spaccarla con un martello sono solo alcune delle possibilità offerte dal gioco, tutte estremamente cruente e al contempo sadiche, in puro stile Suda 51. La Torre di Barb diventa pertanto un mero pretesto per dare libero sfogo alla violenza del giocatore, veicolata dalla ricerca di scrigni, armi e quant’altro ogni livello abbia da offrire. La buona varietà di nemici scandisce la progressione verso l’agognata vetta mentre l’asticella della difficoltà viene settata sempre più verso l’alto. Menare fendenti a casaccio, pertanto, non porterà altro che rabbia e una prematura morte. Discorso a parte meritano invece i boss e i mini boss del gioco, tutti esteticamente galvanizzanti oltre che terribilmente inquietanti. Va detto però che, anche una volta abbattuti, questi ricominceranno a presidiare il proprio piano non appena il giocatore vi rimetterà piede. Questo può portare a situazioni al limite del surreale come nel caso in cui, dopo essere usciti vincitori da uno scontro, si finisce uccisi da un normalissimo nemico di guardia al livello successivo prima di aver avuto accesso al comodo ascensore che conduce all’hub centrale, il che significa dover rifare tutto da capo.
Purtroppo, il gameplay non riesce mai davvero a brillare. La non proprio elegante gestione delle telecamere, unita a qualche incertezza nel framerate, incidono negativamente sull’esperienza di gioco, già di per sé estremamente ripetitiva e a tratti frustrante a causa soprattutto di un elevato livello di difficoltà che non fa sconti a nessuno. Ed è proprio qui che si annida il malevolo influsso del free-to-play: se è vero che Let It Die è giocabile in maniera del tutto gratuita, è anche vero che mettendo mano al portafogli è possibile non solo accelerare la scalata, ma anche usufruire di un servizio di rianimazione istantanea utilizzando degli strani teschi iridescenti che evitano al giocatore di dover ricominciare dal principio il viaggio verso la vetta. Il classico “Continue?”.
Fortunatamente (anche se non in tutti i piani) sono presenti dei comodi ascensori che, dietro pagamento di Monete Carneficina, collegano l’hub centrale alle varie aree del gioco, ma cadere nella tentazione di spendere soldi veri e continuare la partita dal punto in cui si è trapassati è estremamente semplice. A tal proposito, Let It Die permette al giocatore di acquistare, con valuta reale, dei pass giornalieri o mensili attraverso cui sarà possibile usufruire di svariati bonus come un ascensore esclusivo che consentirà di spostarsi gratuitamente da una zona all’altra della torre. C’è da dire che, grazie al log-in giornaliero e al completamento di missioni secondarie, sarà comunque possibile ottenere teschi e Monete Carneficina extra ma si tratta pur sempre di quantità irrisorie che rischiano di terminare nell’arco di poche ore se non si adotta un approccio ragionato al gioco.
Riguardo l’hub centrale, oltre a fungere da piano di partenza per le scorribande del giocatore, offre un negozi di armi in cui decriptare i progetti degli equipaggiamenti per poi acquistarli; un banchetto di decalcomanie con cui potenziare ulteriormente il proprio personaggio; una strana postazione grazie alla quale sarà possibile aggredire e depredare le basi di altri giocatori connessi online, oltre che privarli dei loro migliori combattenti portandoli via con sé.
La creazione di armi e armature passa, ovviamente attraverso l’apposito negozio ed è qui che la componente crafting del gioco trova il suo spazio. La raccolta di materiali non è che uno dei numerosi modi che Let It Die mette a disposizione del giocatore per renderlo in grado di affrontare sfide sempre più ardue consentendogli di ampliare il proprio arsenale. Purtroppo, l’esigua dimensione della borsa limita enormemente il quantitativo di oggetti che è possibile trasportare con sé e persino il deposito presente nell’hub, alla lunga, risulterà insufficiente a stanziare la mole di armi, armature e materiali raccolti. Anche in questo caso la fregatura è dietro l’angolo e il gioco spingerà ad acquistare slot aggiuntivi per il deposito utilizzando teschi iridescenti, al fine di ovviare al problema. Un consiglio: se tenete al vostro portafogli create meno armi possibili e accontentatevi di quelle sparse all’interno del gioco. Un giorno, (se non cancellerete Let It Die dalla vostra PS4 dopo cinque minuti) mi ringrazierete.
STYLISH 51
Let It Die mantiene l’appeal grafico che differenzia da sempre le produzioni di Suda 51: un cell shading marcato nei personaggi e appena accennato negli ambienti di gioco, in linea con quanto visto anche nelle sue precedenti opere.
Immagini psichedeliche dal retrogusto vintage durante le cut scene, si alternano agli ottimi effetti di luce e alla buona resa grafica generale, nonostante la proceduralità nella creazione delle stanze della Torre di Barb tenda ad appiattire ogni singola area di gioco.
Come sempre le musiche di Akira Yamaoka donano un tocco di classe alle produzioni di Grasshopper Manufacture e la colonna sonora dal chiaro influsso punk-rock giapponese esalta quanto di buono ha da offrire il titolo sviluppato da Goichi Suda.
PRO
– Folle e delirante
– La colonna sonora confezionata da Akira Yamaoka è una vera gioia per le orecchie
– Longevità praticamente infinita
CONTRO
– Livello di difficoltà eccessivamente elevato
– Gameplay ripetitivo e a tratti frustrante
– Personaggi privi di personalità