Come più volte affermato, il panorama indie offre molteplici giochi in grado di unire sia elementi recenti che già consolidati di game-design, con risultati spesso davvero interessanti. Lo scorso anno è toccato a Sundered creare un metroidvania con creazione procedurale dei livelli, quest’anno invece è Dead Cells a sorprendere con un ibrido tra Castlevania e Dark Souls.
Il cuphead dei soulslikevania metroidslugganti
Per descrivere l’impatto di Dead Cells si può cominciare con l’ambientazione, fosca e dura, accogliente quanto incassare un colpo di mazza ferrata con uno scudo di legno. Il primo impatto con il gioco è ruvido e codifica con un singolo fotogramma quello che sarà il cardine, centrale e ripetuto dell’avventura. Se la schermata “You died” difatti è considerata da molti il momento culmine di Dark Souls, perché il game-over è parte fondante dell’esperienza al punto da presentarsi costantemente, lo stesso può dirsi del cadavere del protagonista steso sul fondo di una cella-patibolo. Da qui si inizia e da qui si riparte ogni volta che si viene sconfitti. Gli sviluppatori mettono subito in chiaro che la missione di uscire vivi da questo dungeon non sarà di facile completamento, al punto da far pensare che la nostra partita in realtà sia solo una delle tante che cominciano sempre nello stesso modo e che frequentemente terminano male. Ogni volta il cadavere viene però rianimato da una specie di globo melmoso che si va ad insediare al posto della testa, dando nuovamente il via alle danze in un tetro balletto di morte.
Symphony of the Soulslike
Ogni rientro però sarà agrodolce, per metà agevolato dalla conservazione dei power-up ottenuti, per l’altra metà fustigato dalla perdita dell’equipaggiamento e dalla modifica procedurale della mappa del livello. La sconfitta quindi comporta un reset intermedio della partita per cui si conserva qualcosa delle fatiche precedenti, ma non tutto e dove bisogna muoversi ogni volta in un castello assemblato in modo familiare ma al tempo stesso sconosciuto.
Da questo punto Dead Cells invoglia a gestire l’inventario in modo molto pragmatico, senza comprare oggetti allo scopo di accumularli, ma semplicemente per usarli come complemento alla vera arma che permetterà al giocatore di proseguire: la pratica nel gioco.
Il sistema di combattimento è molto valido e sfaccettato, oltre che gestito con precisione. Salti, rotolate, attacchi, tutto può essere adattato allo stile di ciascun giocatore anche in base alle numerose armi quali spade, archi, bombe, e altro ancora. In particolare è l’arsenale ad offrire un buon numero di opzioni con cui differenziare in modo tangibile e gratificante gli scontri.
Ogni nemico ucciso rilascerà la valuta per fare compere dai mercanti, ma se le abilità possono ancora resistere alle frequenti morti, il denaro viene anch’esso disperso, così come l’arsenale. La possibilità di seguire una progressione libera lungo il castello, unita alle modifiche strutturali ad ogni ripartenza, scongiurano il rischio che le ripartenze diventino troppo ripetitive o frustranti. La curva di difficoltà è impostata per essere ripida e punitiva, tuttavia i due espedienti impiegati per gestire la progressione attenuano l’amarezza di ogni game-over, mantenendo l’esplorazione sempre diversa da quella dei minuti precedenti.
La formula alla base di Dead Cells è quindi convincente eppure non è tutto: la grafica è decisamente curata e dettagliata, con sfumature cromatiche suggestive, che valorizzano una pixel art gradevole e animata bene. Rimane comunque in distacco sensibile tra alcuni personaggi comuni, non sempre molto definiti e particolareggiati, e gli eccellenti fondali. In mezzo alla ormai consueta valanga di produzioni indie mediocri, che usano questo stile grafico come scusa per giustificare comparti grafici scarni e approssimativi, Dead Cells invece alza l’asticella qualitativa media.
Pro
- buona fusione tra meccaniche roguelite e proceduralità
- graficamente molto sopra la media
- giocabilità molto solida
Contro
- il level design rimane legato ai limiti del sistema procedurale
Voto: 9