In Project Zero II: Crimson Butterfly le cose non viste non sono sempre più spaventose, se lasciate all’immaginazione, di quelle viste chiaramente o raccontate. La buona pratica narrativa vuole che si faccia vedere invece di “dare informazioni”, ma per gli horror è diverso, anzi, il Tell don’t Show è fondamentale: le scene più spaventose sono quelle lasciate all’immaginazione folle del giocatore, dove si sfocia nei mondi facendi parte dell’onirico o la scena si estende ad un reame dell’immaginazione inaspettatamente contorto.
Qualcosa che non si può rappresentare, di fatto, ma solo ricreare, stimolare, indirizzare e che verrà poi immaginato di conseguenza dal giocatore, come in un brutto sogno dove la mente rielabora le informazioni ricevute durante il giorno. Un’effetto “slow burn” che brucia da una fiammella, fino a diventare una vorace tempesta di fuoco che si abbatte sul giocatore, corredata in più da gameplay adatti a questo tipo di dinamica da sviluppo lento e costante. Ve ne parliamo in questo articolo speciale dedicato al Tell don’t Show in Project Zero II: Crimson Butterfly!
Project Zero II: Crimson Butterfly , la storia di Mayu e Mio
C’è una sfilza di giochi passati e presenti che usa questa raffinata tecnica, diventata ancora più raffinata nel genere horror, tra i quali appunto Project Zero II Crimson Butterfly, meglio noto come Fatal Frame 2 Crimson Butterfly, uscito nel 2003 come esclusiva PlayStation 2 e nel 2004 come titolo Xbox. Il primo Project Zero era stato ben ricevuto al tempo dalla critica e dai giocatori, nonostante non vendesse che pochissime copie, quindi l’arrivo di Project Zero II fu quasi un lampo a ciel sereno per tutti quelli che seguivano la storia di Miku.
Rispetto al suo predecessore, il gioco andava a parare sulle raffinatezze dell’introspezione raccontandoci della storia di due gemelle, Mayu e Mio Amakura, migliorando sotto tutti gli aspetti il gameplay ed il design. Controlli più reattivi in prima persona per la Camera Obscura – la nostra “arma” contro i fantasmi – ambienti, audio, tutto finalmente migliore e non più in fase embrionale, con l’incertezza tipica di quei giochi che non si sa ancora se sfonderanno – ma Project Zero II avrebbe sfondato eccome, almeno la mia testa e quella di altre decine di giocatori la cui mano tremava a infilare il cd nella console. Project Zero II sarebbe stato in grado di rifinire l’horror in maniere mai viste, ma ancora non lo sapevamo.
Project Zero II difatti non è direttamente collegato al primo Project Zero, ma passeranno anni prima che la software house arrivi a collegarli a Project Zero 3 e alla storia della tormentata Rei. Quando uscì, era uno stand-alone ambientato nella sfera mitologica della serie, ma prima ancora dell’originale. Non ha collocazione certa nei suoi eventi, e non voleva averla. Project Zero II: Crimson Butterfly è un videogioco molto amato con una grande storia. Se siete alla ricerca di un’esperienza coinvolgente, questo gioco è sicuramente all’altezza. L’atmosfera inquietante vi attirerà e vi terrà impegnati mentre giocate e cercate di respingere gli attacchi degli spiriti.
Giocare a Project Zero II: Crimson Butterfly è quasi come essere catapultati in un film dell’orrore, con immagini inquietanti e spaventi da brivido. A volte può essere un po’ opprimente, ma questo fa parte del fascino: è terrificante nel modo migliore. Con i suoi incredibili enigmi e la trama avvincente, questo gioco entusiasmerà sicuramente gli appassionati di giochi horror e, nel caso vogliate dare un’occhiata ad altri titoli di questa serie, potrete trovare tutto ciò che vi serve in questo speciale sulla saga di Project Zero.
Mayu e Mio, le due gemelle protagoniste di Project Zero II, vengono magicamente sospinte da una manciata di farfalle rosse verso il loro luogo di gioco preferito da piccole – nella misteriosa Minakami, città del Giappone svanita da tempo, persa sulle mappe e correntemente un rudere in cui si verificano stranezze di vario tipo. I vicini locali parlano di un antico rituale rosso come il sangue che veniva tenuto per garantire che il villaggio prosperasse: una volta di troppo fallì e così il villaggio venne inghiottito dall’oscurità, diventando maledetto.
Ora si dice che chiunque vaghi nella foresta di Minakami possa diventare parte delle anime maledette che infestano senza pace il luogo, e questo è vero anche per Mayu e Mio che si trovano ad esplorare non più una casa, ma un villaggio intero, con le sue strutture ed i suoi antichi templi, nella speranza di liberarsi dal maleficio.
Tell, don’t Show
Project Zero II: Crimson Butterfly si distingue decisamente nel campo dei videogiochi, come il suo successore Project Zero: Maiden of Black Water, soprattutto per la sua dinamica unica tra racconto e spettacolo. Invece di affidarsi ai soliti spunti visivi, comuni in altri giochi, questo gioco mette i giocatori nella condizione di dover determinare cosa sta accadendo semplicemente leggendo la storia, mettendo in gioco la propria interpretazione senza affidarsi ad altri.
Questo ulteriore livello di difficoltà rende Project Zero II: Crimson Butterfly un’esperienza diversa da qualsiasi altra, soprattutto se combinato con la sua splendida atmosfera e gli agghiaccianti elementi horror. Comprendendo le basi del Tell Don’t Show attraverso le specifiche meccaniche di gioco di Project Zero II: Crimson Butterfly, i giocatori potranno avere un vantaggio quando giocheranno a questo titolo classico e immergersi veramente nel suo mondo affascinante e ammaliante.
Questo perchè il tell, don’t show (o almeno non solo) qui viene applicato con ferocia: all’inizio esploriamo la cittadina quasi casa per casa, familiarizzando con ogni passaggio, ogni ponte e ogni costruzione, con la storia di chi ci viveva e col suo ruolo nel villaggio raccontata da documenti e lettere, e tutto sempre in compagnia di Mayu, la sorella gemella. Anche lei ha una barra nella vita e sta a noi nel ruolo di Mio accompagnarla nel villaggio e proteggerla dagli orrori che spuntano dalle pareti, in quanto possessori della Camera Obscura.
Mayu va anche protetta da sé stessa, in quanto personaggio che scortiamo che sente il richiamo di questo rituale dedicato per l’appunto ai gemelli. Mai una volta la ragazza è stata di troppo, se non stando timidamente in un corridoio in cui volevamo passare e senza rappresentare mai una sfida troppo difficile per il giocatore. Anzi, la sua presenza ci rende partecipi della sua lotta contro la maledizione, e rende ulteriormente motivati a salvarla dalle oscure presenze di Minakami in quanto questa le distrae grazie al suo forte richiamo, permettendoci di “sferrare colpi” diretti ai fantasmi dalla potenza devastante.
Ma torniamo al “racconta, non mostrare”: a differenza di titoli come MADiSON (se non avete recuperato, vi suggeriamo la nostra recensione) tutto ciò viene raccontato fino a questo punto, dai documenti e solo in modo frammentario mostrato dalle brevi cutscene che tempestano le nostre avventure con Mayu. E ci viene sempre raccontato, ben poco mostrato, come il suo non sia un caso isolato; come quello di Mayu sia semplicemente un terrificante accenno a cosa ci attende se dovessimo fallire nel salvarci dalla maledizione di Minakami.
Il tutto è stato orchestrato in maniera impeccabile e rispettando dei tempi molto specifici: attenzioni riposte allo sviluppo e all’andatura della narrativa che si assicurano, tramite meccanismi psicologici, che il giocatore sia naturalmente attratto al vedere come procede la trama. In maniera organica e continua, condito da un sound design da brividi (un argomento già affrontato sia in The Callisto Protocol che in Dead Space Remake) che fa impallidire anche le bellissime musiche di Yamaoka.
L’arte di raccontare un gameplay
L’arte di raccontare non termina qui, ma è implicita perfino nel gameplay: per esorcizzare i nemici dobbiamo usare la Camera Obscura, un tipo particolare e antico di macchina fotografica, e quindi dobbiamo affrontarli faccia a faccia, armarci di sangue freddo e non scappare dai centenari fantasmi che infestano l’antica città. La macchina fotografica come arma definitiva comporta in fatto di scelte il dover guardare direttamente le nostre paure, che ci piaccia o meno; di doverci avvicinarci ad esse il più possibile per portare il colpo perfetto, con la maggior quantità di danni.
E anche se potreste non essere d’accordo, fa sempre parte della dinamica del racconto, più che del mostrare (che qui si riferisce alle cut-scene). Non vediamo mai nessuno a parte Mio usare la camera, nemmeno in retrospettiva, e ci viene solo blandamente spiegato come usarla in forma scritta – da lì è il giocatore che deve capire che questo intimo viaggio nell’orrore non prevede rifugi, nè nascondigli, nè pietà.
La moralità del gioco è l’ultimo aspetto che ci viene raccontato e mai mostrato: man mano che la storia viene scoperta, impariamo che i tragici eventi di Minakami non sono il prodotto di sadici, cultisti, psicopatici o altre terribili forze, ma semplici atti di gente per bene, gente di tutti i giorni di cui recupereremo le memorie e che desiderava solo continuare una vita tranquilla, prima e dopo il sacrificio occasionale di due gemelle.
Il risultato ultimo, ed il motivo per cui le protagoniste sono lì, è che il rituale è fallito inghiottendo la cittadina in un portale che conduce al mondo dei morti, e che per tenerlo chiuso una volta ogni qualche decade un paio di gemelli devono essere sacrificati per ripristinare i sigilli. Ma il “devono” è solo un modo di dirlo, perchè pare si basi tutto sul “volere”: il rituale è a base volontaria e c’è senso di onore, non costrizione. Un necessario male fatto nel nome di un bene superiore e generale. La strada per l’inferno in fondo è sempre lastricata da buone intenzioni.
Come avete visto, l’horror a volte sovverte il famoso principio che prevede di far vedere e non raccontare: in questo caso abbiamo maree di documenti e note sparse ovunque, meccaniche che raccontano aspetti del gioco e una storia che racconta sè stessa a più livelli, con poche cutscene e molta più narrativa parlata e spiegazioni. In tutto questo vi abbiamo presentato forse il titolo più onirico di un intero comparto che spazia, perchè nell’horror c’è tanta di quella varietà che è difficile mettere un bollino univoco sulle caratteristiche di ogni titolo. In tutto questo, ricordate: non è un modello poligonale o l’altro che vi faranno amare un videogioco, ma il racconto che c’è dietro e che vi porterete appresso nella memorie per sempre.