C’è un’ironia crudele nel trasformare il luogo deputato alla meraviglia in un teatro di incubi. Il Carnival di Little Nightmares III gioca tutto su questo cortocircuito emotivo: luci a festoni che non riscaldano, tende slabbrate che sussurrano, attrazioni che scricchiolano come vecchie mandibole. La demo mostrata a Colonia è breve, quasi un assaggio, ma è sufficiente a ribadire la grammatica della serie (nonostante il passaggio di testimone alla cabina di sviluppo, da Tarsier a Supermassive Games) e a innestarvi l’elemento chiave di questo terzo capitolo: la cooperazione. Non in salotto affiancati da un amico, questa volta, bensì in single player con un compagno mosso dall’IA, chiamato a condividere con noi peso, rischio e soluzioni. Un patto di fiducia necessario, perché il carnevale non perdona esitazioni.
Un’incubo da vivere non più in solitudine
I protagonisti sono Low, armato del suo arco, e Alone, che impugna una chiave inglese. Anche in questa modalità single player con IA, la sopravvivenza dipende dal dialogo tra le loro abilità: Low è in grado di colpire bersagli distanti, tagliare corde o abbattere nemici volanti grazie alle sue frecce, mentre Alone può colpire nemici storditi, sfondare barriere o agire su giganteschi meccanismi con la sua chiave a mo’ di mazzuolo.
L’ambientazione si presenta come un diorama velenoso: corsie di stand abbandonati, riflessi bagnati che deformano le ombre, una giostra che ruota lenta come un pendolo ipnotico. La regia laterale, tipica della saga, continua a sfruttare con intelligenza profondità, prospettiva e fuori campo: si intravedono sagome oltre il sipario, si ascoltano passi dove la camera non arriva, si intuisce la minaccia prima ancora di riconoscerla. La palette alterna colori zuccherini e marciume, ed è questo altalena cromatica a definire l’identità del livello: un’attrazione itinerante che ha perso il sorriso e conserva, amplificato, solo il proprio ghigno.
L’idea di giocare in due si manifesta subito nel passo, nelle piccole coreografie necessarie a far avanzare la coppia. L’IA del compagno – per quanto visto – si muove con discrezione, si fa trovare al posto giusto quando serve spingere, afferrare, tenere una leva tirata mentre ci infiliamo in un pertugio. Non è una rivoluzione, piuttosto è una spalla credibile che chiede al giocatore di pensare in termini di incastri e tempi condivisi. L’impressione è quella di un design che preferisce suggerire piuttosto che imporre: non macro-puzzle da manuale di cooperativa, ma micro-azioni concatenate che, sommate, costruiscono il ritmo dell’escape.
La demo mette in fila un paio di puzzle ambientali pensati proprio per misurare questo equilibrio. Piccole sequenze di sincronizzazione, passaggi in altezza che pretendono un “ti tengo, sali”, meccanismi che separano per poi ricongiungere: il senso non è mai quello di bloccare la progressione, bensì di farci sentire la fragilità del duo e la dipendenza reciproca. Funziona perché resta invisibile; perché ci induce a osservare la scena e a intuire, in pochi secondi, chi debba fare cosa. È un design che appartiene alla tradizione della serie, ora spinto a fare i conti con la logica del doppio.
Un carnevale di incubi
Sul fronte delle minacce, il carnevale osservato qui a Colonia schiera due “famiglie” di incubi. Da un lato creature grandi e deformi, intente a fagocitare cibo e gozzovigliare beceramente, ad incarnare la proibizione dello spazio: presidiatori di aree, mani che, se osiamo la vicinanza, afferrano e inghiottono la scena nel buio di un game over immediato. A opporsi, o meglio a inseguirci, ci pensano le presenze più piccole, scattose, con teste sproporzionate: silhouette da pupazzi malriusciti che ti puntano e ti rincorrono, costringendo a scarti improvvisi, a nascondigli d’istinto, a una lettura istantanea dei ripari. La dialettica tra “territorio proibito” e “caccia attiva” dà al livello un respiro a fisarmonica: trattenere, fuggire, riprendere fiato, farsi catturare dallo sguardo di una vetrina che non riflette più la realtà.
Il controllo resta asciutto, calibrato sul peso del corpo minuto e sull’inerzia delle animazioni. Non c’è spettacolo atletico: c’è goffaggine, c’è il passo corto che inciampa, c’è il salto che arriva per un pelo, proprio come deve essere in Little Nightmares. La presenza del partner non appesantisce, anzi obbliga a una gestione dei tempi che scongiura la frenesia gratuita: attendere che l’IA si posizioni, darle agio di completare la sua parte, verificare che l’apertura sia davvero sicura prima di esporci. In un segmento così contenuto, l’IA mostra qualche esitazione fisiologica nelle strettoie, ma nulla che rompa il sortilegio o ne tradisca l’intenzione.
Sul piano sensoriale il Carnival non tradisce: l’audio lavora per sottrazione, con chincaglierie che tintinnano, altoparlanti lontani che gracchiano un valzer stonato, un vento che sembra passare dentro il legno bagnato. La musica non invade: punge e si ritrae, lasciando spazio a respiri, ai tessuti che sfregano, al rumore secco del nostro errore. Visivamente, il capitolo continua a inseguire quella bellezza sgradevole che è marchio della serie: modellazione volutamente sgraziata, texture che hanno il sapore dell’oggetto toccato con le dita sporche di zucchero filato e cenere. È una direzione artistica più che una prova di forza tecnica, e proprio per questo ha carattere.
Una demo corta e misurata
È però doveroso ammettere che si è visto poco. La durata della demo non consente di giudicare l’ampiezza delle idee, né di capire quanto la cooperazione saprà rinnovare davvero il passo dell’avventura. Al netto della buona resa dell’IA e della solidità dei piccoli enigmi, restiamo nella comfort zone della serie: fuga, occultamento, attimi di panico controllato. Il rischio – e insieme la promessa – è che l’elemento cooperativo venga utilizzato soprattutto come moltiplicatore di atmosfera, più che come chiave di volta meccanica. È un rischio comprensibile, e anche accettabile, purché nel gioco finale la varietà di situazioni e di combinazioni dia profondità a questa grammatica a due voci.
Nel complesso, l’impressione è comunque positiva. Il Carnival possiede il fascino sporco di una cartolina bruciata, e il nuovo baricentro cooperativo – qui simulato dall’IA – aggiunge quel tanto di tensione relazionale che basta a farci sentire complici e vulnerabili. Non c’è stata la zampata che ridefinisce, non c’è stata la trovata che sposta l’asticella, ma c’è coerenza, mestiere e una notevole sicurezza nella messa in scena. Per Little Nightmares III potrebbe essere abbastanza, se il percorso completo saprà orchestrare con astuzia perseguitori, fughe e puzzle, evitando la ripetizione e lasciando che l’ansia, più che l’azione, resti la vera protagonista.
Usciamo dal tendone con quella familiare stretta allo stomaco e con qualche domanda ancora sospesa: quanta varietà nei biomi, quante evoluzioni nella dinamica a due, quanto margine per sorprendere una platea che la formula ormai la conosce bene. Domande legittime, figlie di una demo corta e misurata, che però centra il punto: ricordarci perché questi piccoli incubi continuano a sedurci. Il resto – l’invenzione, il guizzo, l’azzardo – lo aspettiamo al debutto, quando il carnevale smetterà di essere un assaggio e ci chiederà il biglietto intero.