Il mercato dei videogiochi giapponesi, a differenza di quello che si possa pensare, non è mai morto.
In effetti, con più di 13 miliardi di dollari generati nel solo 2015 – di cui circa 10 provenienti dai soli titoli mobile – è impossibile pensare a un settore in crisi.
Ad essere in crisi, al contrario, è indubbiamente il videogioco come viene concepito nel resto del mondo. Un riflesso della società giapponese che, da anni, è costretta a confrontarsi con un costante calo delle nascite che sposta l’asticella dell’età dai giocatori adolescenti di ieri a quella degli adulti più che trentenni di oggi, unita a orari di lavoro sempre più proibitivi. La conseguenza, (senza approfondire eccessivamente la questione e rischiare di uscire dal seminato) è sempre minor tempo per fruire di forme di intrattenimento digitali casalinghe surrogate, appunto, dal mobile gaming.
Comodo, veloce, sempre a portata di mano.
Ma di questo mutamento della società nipponica qualcuno si era già accorto otto anni fa. Quel qualcuno era Keiji Inafune, a quel tempo in fuga dagli “Yes Men” e dalle società macina-uomini giapponesi.
“Man, Japan is over. We’re done. Our game industry is finished.”
“Everyone’s making awful games – Japan is at least five years behind.”
Tutta l’amarezza e la disillusione del game producer espressa attraverso una critica esasperata verso l’industria che ha trovato ampio spazio durante il T.G.S. del 2009.
Tra tutti, c’è un passaggio che Inafune evidenziò con chiarezza: gli investimenti fatti nel Sol Levante per lo sviluppo di nuovo software non sono sufficienti per garantire la creazione di un prodotto, soprattutto se paragonati a quelli americani. Senza contare, tra l’altro, la paura del confronto da parte dei giapponesi con le produzioni occidentali (che hanno preso sempre più piede dall’avvento delle console di casa Redmond) e una incapacità generale di approfondire gli aspetti chiave della cultura d’oltreoceano.
Non a caso, per Inafune, la soluzione di ogni male per l’industria nipponica passa proprio attraverso Kickstarter, piattaforma che garantisce agli sviluppatori giapponesi la visibilità e il contatto diretto col pubblico fuori dai confini nazionali. Oltre a sopperire alla mancanza di fondi per la realizzazione di un progetto.
Pensieri a cui fecero eco, nel 2015 le parole di un altro connazionale, Hiroaki Yura, un violinista di fama internazionale prestato al videogioco, con un bagaglio di esperienze in ambito internazionale davvero impressionante. Nel 2013 fondò lo studio di sviluppo Creative Intelligent Arts e oggi ricopre il ruolo di director in Project Phoenix. Titolo, tra le altre cose, finanziato attraverso la nota piattaforma di crowdfunding di cui sopra.
Secondo Yura, l’industria dei videogiochi giapponesi è ferma agli anni ’80 e questo non solo perché tecnicamente arretrata rispetto al resto del mondo (rimbalzando così le parole di Inafune). Uno dei problemi chiave è insito proprio nella mancata condivisione delle informazioni e delle conoscenze tra gli addetti ai lavori e le software house: ognuno ha i propri trucchi del mestiere e li tiene gelosamente per sé.
Anche qui, è facile costruire un ponte con le parole di Jake Kazdal, sviluppatore di vecchia data e fondatore di 17-bit Games la cui attività è sempre stata legata a doppio filo col Sol Levante: “I giapponesi hanno dato forma al videogioco (…) ma ora molti non fanno altro che ripetere le medesime cose all’infinito”.
Ovviamente, per bocca di tutti gli “interpellati”, queste considerazioni non tengono conto di Nintendo che negli anni ha continuato a mantenere invariata (nonostante alti e bassi) la sua posizione di rilievo all’interno del mercato tanto fuori quanto dentro il Giappone.
Ma che l’industria nipponica stia spostando il proprio business verso forme di intrattenimento più remunerative e al passo con la società, è ormai evidente.
Eppure nelle classifiche di vendita americane ed europee degli ultimi sei mesi la vetta è rimasta quasi sempre occupata da soli titoli confezionati nel Sol Levante: prima con F.F. XV, poi con The Last Guardian, Gravity Rush 2, Yakuza 0, Resident Evil 7, Nioh, Nier: Automata, Zelda: Breath of The Wild e, tanto per chiudere in bellezza, Persona 5. E questo senza includere nella lista le versioni rimasterizzate di Kingdom Hearts.
Insomma, tutti giochi giapponesi e tutti (o quasi) acclamati da pubblico e critica.
Il merito di un tale traguardo non può che essere riconducibile a Sony, artefice del rilancio in occidente delle produzioni sviluppate in madrepatria.
Dopo una generazione travagliata che l’ha vista testa a testa con Xbox 360 (e con tante esclusive perse divenute multipiattaforma), con PS4 è stata in grado di sbriciolare, nel giro di poco tempo, ogni record di vendita. Grazie anche a una campagna marketing aggressiva che ha giocato (e non sempre con spirito di fair play) con le caratteristiche delle proprie rivali – vedasi “come prestare un gioco a un amico” facendo leva sulle polemiche che avevano travolto Microsoft riguardo alla questione digital.
Certo, per vedere titoli di qualità, come si diceva, è necessario un investimento non indifferente, oltre che lunghi tempi di sviluppo ma è proprio grazie agli introiti e alla posizione di superiorità che Sony ha conquistato in quest’ultima generazione, che giochi del calibro di Nier: Automata o The Last Guardian hanno potuto vedere la luce. E qui potremmo aprire una piccola parentesi sulla malagestione di Scalebound da parte di Microsoft ma… questa è un’altra storia.
Eppure limitare a un mero fattore economico la nuova alba delle produzioni nipponiche in occidente è indubbiamente riduttivo.
È vero, come dice Inafune, che i giapponesi hanno paura di innovare e confrontarsi con l’esterno e anche quando hanno tentato, il risultato sono stati titoli di dubbia qualità che non hanno convinto appieno l’utenza.
Basti pensare a Resident Evil 6 o, scavando più a fondo, a Shadow of Rome, (un bel gioco epoca PS2) che, per stessa ammissione del papà di Mega Man, era un prodotto che tentava solo superficialmente di adattarsi ai gusti degli occidentali, “ cambiando il colore dei capelli e rendendo blu gli occhi dei protagonisti”.
Nonostante tutti i problemi esposti fin qui, insomma, qualcosa sta cambiando. Seppur l’industria nipponica continui a rincorrere se stessa nella produzione di giochi plasmati sull’otaku medio giapponese, sono tante le realtà che guardano all’occidente come un mercato da conquistare, per tornare ai fasti di un passato di cui loro stessi sono stati artefici. Nell’ottica di vendere al più vasto pubblico possibile, le produzioni nipponiche hanno smesso di emulare gli action movie americani adoperando il loro know-how e ricreando nelle loro opere quel fascino tipico del Sol Levante.
Qualcosa che oggi ci fa guardare speranzosi a una nuova alba per questo mercato.