Uno dei tratti distintivi del filone del thriller psicologico, lo sappiamo, è la sua capacità di giocare subdolamente con le zone d’ombra della mente, creando situazioni così stranianti e inaspettate da congelare il sangue nelle vene di chi gioca. Non capita tuttavia tutti i giorni, in questo “segmento”, di imbattersi in un’opera che tenta con coraggio di sovrapporre ricordi, colpa e follia in una cornice tanto disturbante quanto ambiziosa. Karma: The Dark World, sviluppato dal team cinese Pollard Studio e pubblicato da Wired Productions, si inserisce a modo proprio nel solco di esperienze immersive del calibro di Observer o Layers of Fear, mosso dalla volontà di rielaborarne i codici portanti filtrando il tutto con l’accattivante lente di un distopico regime autoritario che manipola i pensieri e censura le emozioni.
Un’idea intrigante sulla carta, che si concretizza in un’avventura dal forte imprinting narrativo, frammentata e allucinante, in cui il confine tra realtà e delirio si fa progressivamente più impalpabile. Ma se l’atmosfera disturbante e la direzione artistica convincono sin dalle primissime battute di gioco, il titolo si perde un po’ sul lungo periodo a causa di un ritmo incostante e meccaniche non sempre abili nel valorizzarne la profondità del concept. Ma di questo, e altro, parleremo nella nostra recensione di Karma: The Dark World.
Karma: The Dark World, una psiche sotto sorveglianza
Ammettiamolo, ritrovarci in un arco narrativo che culmina nel lontano 1984 in una sorta di mondo alternativo fa un po’ sorridere – quantomeno per chiunque sia in grado di cogliere il tutto tranne che casuale riferimento orwelliano. Il nostro alter ego, agente speciale della Thought Bureau, è chiamato in causa per sondare i ricordi di un paziente psichiatrico, sotto i cui strati di rimozione e distorsione della realtà si cela una verità tutto tranne che banale. Il gameplay abbraccia gli stilemi ludici del Walking Simulator contaminandolo con un giusto mix di enigmi ambientali, interazioni simboliche e occasionali fasi stealth, ma è nella narrazione – volutamente criptica e stratificata – che Karma: The Dark World gioca le proprie carte migliori.
Il gioco non racconta: suggerisce. O, ancor meglio, lascia briglie libere al giocatore facendo sì che si perda in un flusso di coscienza visivo dove le architetture cambiano forma, i dialoghi si fanno ambigui e le scene si susseguono in un asfissiante rimpiattino dai tratti analoghi a quelli di un incubo febbrile. Lo stile non può non ricordare quello onirico di David Lynch, con un montaggio emotivo che sovrappone elementi del passato e del presente, dell’identità e della repressione. Affiora dunque il sussurro di un racconto disturbante e frammentato, che difficilmente non farà breccia nei cuori di quei giocatori che, per inclinazione naturale, amano ricostruire la verità attraverso indizi e metafore.
Gameplay d’atmosfera, ma non sempre a fuoco
Sul piano ludico, dicevamo, Karma: The Dark World adotta la struttura tipica dei walking simulator narrativi, limitando le azioni del giocatore all’esplorazione, alla risoluzione di enigmi (per lo più di matrice simbolica) e a interazioni ambientali generalmente basilari. Il titolo non mira al raggiungimento di una qualsiasi complessità delle meccaniche: tutto è assoggettato all’atmosfera. Gli enigmi, spesso legati a interpretazioni visive o alla ricostruzione di sequenze oniriche, funzionano perfettamente quando riescono a comunicare il proprio senso attraverso il contesto, ma si rivelano talvolta forzati o poco leggibili, generando in qualche occasione più di qualche momento di frustrazione.
Le rare sezioni stealth, che prevedono fondamentalmente di evitare creature “mentali” all’interno di sezioni che potremo riassumere come corridoi angusti, risultano poco rifinite sia nel level design che, e soprattutto, nell’intelligenza artificiale, finendo inevitabilmente per spezzare il ritmo più che aumentare la tensione dell’esperienza complessiva. Il rischio di incappare in sezioni ridondanti o lente è concreto, soprattutto nella parte centrale dell’esperienza, dove la scrittura tende a indulgere su simbolismi che non sempre trovano uno sbocco narrativo efficace. È chiaro che il focus di Karma non sia l’interazione ludica, quanto l’esperienza sensoriale: una scelta più che legittima in un titolo che fa della narrativa la propria ragion d’essere, ma che rischia di alienare chi cerca un minimo di profondità o varietà nelle situazioni.
A brillare davvero, a fianco del canovaccio narrativo, è la direzione artistica. Pollard Studio disegna un mondo decadente e inquietante, fatto di stanze impossibili, distorsioni percettive e ambientazioni che sembrano scolpite nella carne viva della psiche. L’uso sapiente dell’Unreal Engine 5 garantisce una resa visiva d’impatto, con texture all’altezza delle aspettative e una gestione dell’illuminazione che amplifica il senso di disorientamento. Decisamente degno di nota anche il comparto audio, che fra rumori industriali, silenzi taglienti e una colonna sonora minimalista si dimostra enormemente efficace nel costruire tensione.
Karma: The Dark World non è un titolo per tutti. Richiede pazienza, attenzione e una dose tutto tranne che trascurabile di interpretazione personale. Lontano da soluzioni di uso e consumo comune o da climax facilmente leggibili, il titolo propone un’esperienza che si avvicina più all’arte interattiva che al videogioco classico, assumendosi però al contempo tutti i rischi del caso. Chi cerca ritmo, interazione o una trama lineare (nell’accezione più cinematografica del termine) potrebbe trovarsi spiazzato. Ma al contrario, chiunque sia disposto a farsi travolgere da un racconto “a schegge di vetro”, inquieto e malato troverà in Karma: The Dark World un’esperienza capace di lasciare il segno.
In conclusione
Karma: The Dark World è un titolo tanto imperfetto quanto coraggioso, che spinge senza remore per toccare corde narrative e stilistiche rare nel panorama contemporaneo. La sua forza risiede nell’atmosfera, nella capacità di evocare disagio e, ancor di più, nel modo in cui ci invita a guardare dentro noi stessi attraverso lo specchio deformante del trauma. Peccato per le sue fisiologiche debolezze – ritmo non perfettamente calibrato, gameplay essenziale e interazioni ridotte al letterale minimo – che ne limitano l’accessibilità e l’impatto complessivo. Rimane comunque un viaggio mentale memorabile, non sempre coeso, ma intellettualmente onesto nella sua visione artistica.
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Voto Game-eXperience