Massimo Guarini è salito agli onori della cronaca con Ovosonico, lo studio italiano indipendente di sviluppo da lui fondato. Murasaki Baby, prima opera firmata con questa sua nuova etichetta, ha saputo non solo sfruttare in maniera creativa lo schermo tattile della console portatile Playstation Vita, ma anche presentare un’ambientazione suggestiva e intrigante. Recentemente è stato il turno di Last Day Of June. Tuttavia i lavori di Guarini nell’industria passano anche attraverso grandi case di produzione e studi internazionali come Ubisoft e i nipponici Grasshopper Manufacture’s, per cui ha diretto rispettivamente Naruto: Rise of a Ninja e Shadows of the Damned, quest’ultimo prodotto dall’eclettico Goichi Suda.
Secondo lei, quali sono oggi gli ingredienti di un indie di successo?
Aiuto! Ma così come lo dico io, lo dicono anche gli editori. Nessuno ha la sfera di cristallo ed è difficile capire cosa può funzionare o meno su di un mercato che ormai cambia frequentemente. Credo che non ci sia una componente oggettiva di successo in un gioco indie. Le storie che arrivano al pubblico sono quelle di successo, una su mille, conosciamo quelle ma non i fallimenti. Quindi sembra facile attribuire schemi di successo, ma non è così.
Per la mia esperienza posso dire che una ricetta è avere una visione coerente, forte e di distinguersi dal resto. Purtroppo i grossi problemi stanno nel dare visibilità ai contenuti, basta guardare il negozio digitale di Apple dove ci sono 200 giochi nuovi ogni singolo giorno. Le piattaforme come Steam stanno iniziando ad assomigliargli ed inizia ad essere difficile essere visibili, bisogna lanciare un messaggio. Il processo però deve essere sentito e naturale, non pianificato a tavolino, non ci si può alzare dicendo “io ora voglio fare il diverso”. E’ un processo personale, senza fermarsi solo alle meccaniche della giocabilità e fare un passo in più, capire come potrebbe inserirsi nel mercato, che messaggio ha, come può essere percepito dal pubblico. Sono tutte cose che concorrono a creare ciò che percepisci come un film della Pixar. La ricetta spesso include la disciplina di sé stessi, quando si ha un’azienda bisogna creare dei budget, dei piani tecnologici. Può non sembrare, ma anche questo è un ingrediente di successo. Puoi avere la migliore idea del mondo ma se non la realizzi entro i tempi e con i fondi a disposizione allora non esiste.
Ritiene che la scena indie al momento sia satura? Specialmente guardando alle piattaforme digitali come Apple Store o Steam, si parla tanto di shovelware (il software-spazzatura in mezzo a cui scavare per trovare qualcosa di buono. N.d.r.).
E’ difficile parlare di saturazione quando probabilmente non ci sono abbastanza linee di vendita di massa. E’ bene ci siano creatori che facciano cose, sicuramente c’è un sovraffollamento in quei casi, ma è dato dall’assenza di una struttura di vendita. Sono solo scaffali e nessuno si prende la briga di valutare la qualità.
Mentre su piattaforme digitali di Sony, Nintendo e Microsoft c’è una valutazione del prodotto, su Steam no. Questo porta ad uno scaffale virtuale in cui, senza marketing dietro, il gioco rimane lì a prendere polvere.
Per voi sviluppatori, in questo scenario, quanto conta quindi avere il supporto di un grande patrono per la pubblicazione?
Io volevo raggiungere un partenariato e ho fondato Ovosonico con questa missione. Distribuirsi autonomamente, non equivale a pubblicarsi autonomamente. Troppi studi indie confondono le due cose. Fare un gioco e metterlo, così, in vendita, non significa fare una pubblicazione autonoma, significa fare distribuzione autonoma. Non c’è dietro un editore che lo vende. A mettere su uno scaffale un prodotto sono capaci tutti, a venderlo no. Bisogna fare in modo che la gente se ne accorga, evidenziarne la qualità, il valore, fare sì che se ne parli. E’ un’enorme quantità di lavoro. Ovosonico si è legata ad un editore per non distrarci dallo sviluppo, ma i casi di successo repentino senza promozione alle spalle sono un’eccezione.
Se potesse scegliere una serie famosa su cui lavorare, quale sarebbe la sua scelta?
Non penso lo farei. Forse questo è uno dei motivi per cui ho lasciato l’industria dei tripla-A. Ero costantemente pressato a lavorare su proprietà intellettuali non mie. Farei delle collaborazioni, quello si. Mi piacerebbe collaborare con alcune persone, famose o meno non ha importanza, ma che hanno lavorato a prodotti che ammiro, come Jenova Chen, Fumito Ueda, Akira Yamaoka o John Lasseter. Il mio sogno nel cassetto però resta realizzare la mia serie e lasciare un messaggio con quella.
Murasaki Baby e Last Day of June si contraddistinguono come titoli con una forte impronta artistica e un aspetto meno accentuato sulla giocabilità immediata, che può essere tipica di molti giochi indie. Volete continuare seguendo questo stile o in futuro vorreste fare qualcosa su di differente, con un’impostazione più arcade?
Penso che la direzione artistica è nel nostro DNA. Non è una cosa studiata a tavolino per sorprendere, piuttosto ci viene naturale. Siamo rimasti sul cartoon, ma toccando tematiche pesanti, creando questo contrasto “TimBurtoniano”, tra temi molto importanti e la spensieratezza dello stile cartonesco.
Quindi è stata una scelta conscia, questo non vuol dire che il prossimo progetto non possa essere realistico. Basti pensare al cinema, dove nonostante la tecnologia sia uguale per tutti la telecamera e la fotografia seguono una loro direzione artistica. Per quanto riguarda la giocabilità vogliamo continuare a sperimentare attraverso le meccaniche, che sono lo strumento per far provare ai giocatori un’esperienza e emozione.
Così come il cinema ha il suo vocabolario, i giochi hanno il loro. Io non voglio usare quello del cinema, ma il nostro, che è la giocabilità ed è più potente di qualsiasi cosa si possa immaginare e che secondo me non viene usata, o viene usata in termini classici e tradizionali. C’è SuperMario che salta, quindi il salto è sdoganato, negli fps bisogna sparare e via dicendo. Certe meccaniche sono entrate nel substrato dell’industria e nessuno le mette in discussione. Si parte con una meccanica di gioco e ci si appiccica sopra una storia; titoli in cui l’eroe arriva baldanzoso e poi parte un filmato triste dove piange e poi si ritorna allo stato di prima. Queste cose fanno vedere come c’è stata una fase di gioco, di film e poi di gioco di nuovo. Io cerco di far provare quelle emozioni, ma sei tu che giocando devi arrivare a quelle conclusioni narrative ed emozionali.
Per i puzzle abbiamo usato questo approccio meno fine a sè stesso e più emozionale ci ha fatto elaborare questo tipo di giocabilità (in Last Day of June. N.d.r.), e che in futuro questo criterio potrebbero essere usato anche per titoli openworld o sandbox.
Nel momento creativo in cui progettate le prime versioni di un gioco, prima pensate ad una meccanica, poi ad un messaggio che volete trasmettere con questa oppure pensate prima ad un messaggio e a come la giocabilità potrebbe portare quel messaggio?
Per noi è fondamentale partire da un messaggio. Quando ti accingi a creare un prodotto e fai provare un’esperienza ci deve essere un tema. E’ un film basato su cosa? E’ un gioco su cosa? Forse non c’era in Mario Bros o in Pacman, all’epoca magari non ci pensava perché si sperimentavano delle tecnologie, ma per noi ora è importante partire da un tema: la perdita dell’amore in questo caso (sempre parlando di Last Day of June. N.d.r.).
Definito il tipo di macro messaggio, tutto deve rientrare lì e non possiamo inserire meccaniche di gioco che distraggano, perché se no poi sa un pò di quello e un pò di quell’altro. Quindi per noi diventa tutto game-design puro e la nostra storia viene raccontata tramite la giocabilità. Anche il discorso di Carl sulla sedia a rotelle è una meccanica di gioco, perché ti permette di muoverti in un certo modo. Tu non puoi salire sugli scalini e ciò influisce sull’esplorazione del villaggio in un certo modo e ti porta a sbloccare le nuove aree di conseguenza. Non usiamo dialoghi, non vogliamo dire niente, ma usare la creatività del giocatore come collante in modo che sia lui ad arrivare alla conclusione attraverso la giocabilità.
Da molti anni si discute se i videogiochi possano essere una forma d’arte e i detrattori di questa teoria sostengono che le opere interattive non possano essere classificate come arte. Qual’è la sua opinione?
Non sono io a dover dire questo, ma pensate al rock’n’roll, pensate a Jerry Lee Lewis e a cosa succedeva quando Jimi Hendrix ha deciso di distorcere il suono della chitarra. Era etichettata come merda, di tutto si è detto, che era musica diabolica, che incitava al sesso. Di sicuro non era arte all’epoca, ma adesso lo è diventata. E’ normale per qualcosa di nuovo e i videogiochi lo sono, perché hanno circa 35 anni di storia. Paragonati a oltre il secolo del cinema e il millennio della musica, sono ancora iper-immaturi e mi aspetto di tutto come “giocare ai videogiochi ti rende un serial killer” o “il videogioco non è una forma d’arte”.
Quello che faccio, non è per definirmi un artista. Ho uno studio e un business e in quanto tale faccio giochi per venderli, ma non mi interessa adesso se per qualcuno sono o non sono arte. Mi fa piacere che certe persone inizino a guarda ai videogiochi con occhi più maturi di chi cerca solo la sfida. Quest’ultima è una cosa che va benissimo, perché dovranno esistere sempre giochi di quel tipo ed è giusto ci siano. Il problema è quello che manca.
Sono sicuro che tra cinquant’anni dire che i videogiochi non sono una forma d’arte sarà una stupidata, così come non ci sarà più nessuno che potrà dire “i videogiochi mi fanno schifo”, senza sembrare cretino come qualcuno che dice “la musica fa schifo”.