Benvenuti al primo episodio di quella che (si spera) sarà una rubrica, dove, per ogni episodio, si parlerà di un singolo personaggio appartenente al nostro amato mondo dei videogiochi. L’attenzione non sarà sui personaggi più iconici o famosi protagonisti del medium, ma appartenenti a una categoria che si spesso si aggira al di sotto dei radar, ovvero quella dei personaggi meglio scritti. Andrò ad analizzare la psiche di tale soggetto, la filosofia e le motivazioni che lo rendono tale da essere definito un ‘’grande’’ dei videogiochi. E come iniziare meglio se non con il protagonista di uno dei giochi più amati e premiati di tutti i tempi, chi altri se non Joel Miller, da The Last of Us.
La vita prima del disastro
Facciamo la conoscenza con il personaggio nel 2013, quando il mondo di The Last of Us non era tanto diverso dal nostro e la morte non era dietro ogni angolo (comunque ci troviamo in America e non si sa mai). Ha una figlia, Sarah, che rappresenta tutta la sua felicità, e infatti, proprio per lei è disposto a fare i salti mortali.
Nonostante sia un genitore single, Joel non è il solito clichè del padre assente, bensì fa di tutto pur di veder sorridere la sua piccola, e questo lo si evince dal suo tornare tardi dal lavoro e dai vari post-it presenti sul frigorifero che giustificano la sua assenza. La ragazzina ha infatti una bella camera, e a guardarla non si direbbe mai che la famiglia soffre di problemi finanziari.
Ma lavorare per portare il pane non è tutto ciò che ci potrebbe indurre a pensare che questo sia un grande padre. Non esita a ritagliare uno spazio per condividere del tempo con Sarah per partecipare ad eventi, come una partita di calcio, da cui è stata ritratta la famosa foto.
Joel quindi non è soltanto un uomo medio, è una brava persona, che suda quanto riesce per dare a sua figlia la vita che, nella sua visione, merita.
Ma il mondo è crudele, e anche quello di The Last of Us lo è. Come ormai è scritto persino sugli annali, Sarah muore nel prologo del gioco, fra le braccia del suo amato padre.
La vita dopo il disastro
Il gioco riprende dopo un salto temporale di 20 anni, con un mondo cambiato.
Infetti che attaccano qualsiasi essere vivente abbiano sott’occhio, e umani costretti a vivere in piccole comunità per non estinguersi. Non è più un posto per persone buone.
Riprendiamo il controllo di Joel, ormai anche lui diverso, e lo si evince notando il suo sguardo anche per qualche secondo. L’uomo ormai è diventato crudele, fa fatica anche solo a fidarsi di qualcuno e non ci pensa due volte prima di ficcare un proiettile nel cranio di una persona. Riflettendoci, ora Joel è diventato il perfetto riflesso del mondo in cui vive, incattivito, cupo e che fa di tutto solo per sopravvivere.
Il suo nemico non è solo la nuova specie di mutanti, i suoi nemici sono gli esseri umani stessi, che in un mondo dove regna l’anarchia, sono liberi di fare ogni nefandezza immaginabile. Ma non è solo l’istinto di sopravvivenza a vedere i suoi simili come nemici, poiché a togliere la vita alla sua ‘’piccola’’ non è stata l’epidemia, ma un essere umano come lui, che fino a quel giorno viveva una vita completamente normale.
Questo rende Joel un concentrato d’odio, che lascia tutti i suoi ricordi felici al passato, rifiutando persino di guardare la foto con sua figlia. Perchè quella foto non è un ricordo, è un trauma. Il brav’uomo non esiste più, consumato dal trauma, ma mantenuto dalla rabbia e dalla voglia di sopravvivere in un modo dove sembrerebbe non valere la pena restare vivi.
Ma attenzione, questo non vuol dire che Joel odia TUTTI gli esseri umani, e lo si evince dal rapporto che con Tess e Bill, che sono più suoi colleghi, che veri e propri amici, o almeno nella sua visione delle cose. Il suo odio è manifestato dalla completa mancanza di empatia verso il prossimo, che non lo fermerà di fronte a nulla. O quasi.
L’incontro
Proseguendo nel suo cammino, incontra Ellie, una ragazzina, più o meno della stessa età di sua figlia. I due non si piacciono subito, ma dopo un po’ stabiliscono un rapporto simile a quello di un padre e una figlia, ma di un mondo post-apocalittico.
Alla ragazza non è rimasto nessuno, né conosce come sopravvivere nell’assurdo mondo. E cosa fa un padre del mondo post-apocalittico? Insegna come prendere la mira, come sparare, come uccidere un uomo e come cacciare. E non perché sono gli insegnamenti sbagliati da dare a una ragazzina, ma perché sono gli unici che permettono di vivere.
Ma Joel non vede solo questo in Ellie, vede molto di più. Vede motivazione, un nuovo senso alla sua vita, un’altra ragione per combattere. La rabbia, unica emozione a tenere in vita l’uomo, viene sostituita dall’amore paterno per la ragazzina, e ora, niente è più importante di proteggere la sua vita.
E qui sorge l’altra faccia della medaglia da padre, ovvero quella normale, che le insegna a leggere, come funzionano le battute, la cultura musicale e quella cinematografica. In fondo Joel, non è mai cambiato. È sempre lo stesso padre amorevole che era un tempo, e cambiarlo non è stesso un mondo spietato, ma la mancanza d’amore sincero.
Per Joel non è importante salvare il mondo o trovare una cura, solo tenere Ellie al sicuro. Per questo, nel finale del primo capitolo, se ne frega di ciò che potrebbe accadere all’umanità, a lui importa solo di sua ‘’figlia’’.
Nello scambio di battute finali con Marlene, il protagonista (o antagonista) dà la vera dimostrazione di cosa si diventa per andare avanti là dove non c’è speranza. Amare qualcosa o qualcuno, non implichi che si debba essere brave persone con chiunque altro, e questo concetto è ancor più vero per Joel, e di conseguenza, se qualcosa minaccia il suo amore, questa va eliminata, a ogni costo.
Pur di preservare il suo rapporto con Ellie, egli è disposto a mentire, anche nelle situazioni più disperate, poiché può crollare il mondo, e Joel lo sopporterebbe, ma non sopporterebbe di perdere un’altra figlia.
Gli anni passano…e ci cambiano
Ma gli anni passano, e i due ormai vivono a Jackson, una comunità che è ciò di più simile al nostro di mondo di quanto si credeva possibile in The Last of Us. E qui vivono in pace.
Joel è sempre un po’ scorbutico, ma va d’accordo con gli abitanti della città, che finalmente possono essere reputati suoi amici. La vita ora è diversa, e non c’è più posto per l’odio nel cuore di Joel, e di conseguenza, questo lo rende molto meno attento. Proprio per questo, decide di aiutare una ragazza, Abby, che ha più o meno la stessa età di Ellie. Ragazza che sarebbe stata la sua fine.
Conoscete la storia e non serva che sia io a ricordarvi quell’indimenticabile momento, ma ci tengo a fare una considerazione.
Al momento in cui è Ellie ad arrivare sul posto, Joel stava venendo torturato da non sappiamo quanto tempo, ma sicuramente stava soffrendo molto e anche da un bel po’. Tuttavia non cede, e la sua essenza vitale continua a tenersi aggrappata a un filo. E quand’è che Joel muore definitivamente? Solo dopo l’arrivo di Ellie. Come se tutte le poche forze rimanenti in corpo si fossero unite per sopravvivere un’ultima volta, al solo scopo di vedere un ultima volta sua figlia, che è anche l’ultima cosa che vedrà.
I fiori, di tutti gli abitanti di Jackson che sono lasciati fuori dalla sua abitazione, fanno capire a noi, il giocatore, che il Joel che hanno conosciuto loro è diverso da quello conosciuto nel primo capitolo. E che era un uomo che valeva la pena ricordare con un fiore, un gesto che si fa quando ad andarsene è qualcuno meritevole di stima o rispetto.
Il personaggio di Joel rappresenta quanto l’odio e la rabbia possano cambiare un essere umano, fino a renderlo irriconoscibile, ma contemporaneamente, quanto l’amore sincero e un senso alla propria vita possano salvare qualcuno, indipendentemente da quanto questo abbia sofferto.