Nella prefazione di Hurt Me Plenty: The Ultimate Guide to First-Person Shooters 2003–2010, firmata da Harvey Smith, c’è un momento in cui il tono nostalgico lascia spazio alla consapevolezza. Quando il prolifico director parla della perdita del codice sorgente di Deus Ex: Invisible War, Smith non vuole limitarsi a farne una banale questione tecnica, ma punta a un concetto più profondo: la fragilità della memoria videoludica. Ed è proprio qui che Bitmap Books affonda le proprie radici: nel tentativo, tanto preciso quanto appassionato, di sottrarre l’identità dei videogiochi all’oblio del tempo. E Hurt Me Plenty: The Ultimate Guide to First-Person Shooters 2003–2010 incarna il manifesto più puro di questa missione.
Eravamo rimasti al 2002, quando il primo I’m Too Young to Die disegnava l’evoluzione dell’FPS dalle origini pionieristiche fino all’era pre-Call of Duty. Oggi Stuart Maine riprende il filo narrativo esattamente da dove lo avevamo lasciato, accompagnandoci dal 2003 al 2011 in un viaggio editoriale imponente, che mescola rigore storico, autorialità nel racconto e una cura editoriale che, per l’ennesima volta, non teme confronti.
Hurt Me Plenty, un archivio culturale a tema FPS
La prima sensazione, sfogliando le pagine di Hurt Me Plenty, è quella del déjà-vu. Layout, organizzazione e cifra stilistica riprendono fedelmente gli stilemi del volume precedente: un’introduzione panoramica sul contesto storico-tecnologico, un breakdown dettagliato delle componenti dell’FPS moderno, per poi entrare nel cuore pulsante del progetto — un annuario critico che racconta, analizza e contestualizza oltre 200 titoli, anno dopo anno. Da Far Cry a Bioshock, da F.E.A.R. a S.T.A.L.K.E.R., passando per esperimenti borderline come Kwari o Arena Champion: Erotic Game (sì, non ci crederete ma esiste davvero). L’avevamo sottolineato in occasione del primo volume di questa “collana” e siamo pronti a ripeterlo: il libro non è solo un’enciclopedia, ma un affresco sfaccettato di un’intera generazione.
La struttura narrativa, formula oramai nota dell’editor inglese, si riconferma funzionale e godibile, con ogni titolo affiancato da screenshot puliti, dati di rilascio e un testo critico che alterna informazioni tecniche, aneddoti di sviluppo e valutazioni contestuali. Il tono scelto da Maine è brillante ma accessibile, ironico ma preciso: una formula rodata, non c’è dubbio, ma che in questo secondo volume acquista maggiore maturità stilistica senza rinunciare al giusto tecnicismo.
L’aspetto più riuscito di Hurt Me Plenty rimane, al di là di ogni dubbio, la sua profondità curatoriale. Bitmap Books non si limita a elencare titoli noti, ma va a recuperare giochi dimenticati, mod artigianali, esperimenti visionari, prototipi mai rilasciati. L’inclusione di sezioni su FPS mai pubblicati, motori grafici custom e interviste a sviluppatori cult (Kick, Levine, Newman, Willits) contribuisce a creare un documento che è sì una celebrazione, ma anche un archivio culturale di rara importanza.
L’ennesimo volume imperdibile, sotto ogni punto di vista
A livello tecnico, siamo di fronte alla consueta eccellenza che caratterizza ogni opera dell’editor inglese: immagini ad altissima risoluzione, impaginazione maniacale, perfetta leggibilità (anche nella versione digitale, ottimizzata davvero al meglio per un supporto a pressoché qualsiasi dispositivo). Il tutto in un tomo di elevatissima fattura, dalla carta pregiata e dall’attenzione ai dettagli che, molto raramente, troviamo in produzioni dedicate all’universo videoludico. Proprio per questo, l’unico rimpianto — se così lo vogliamo chiamare — è la consapevolezza di quanto il livello di questa produzione sia pressoché irraggiungibile per la maggior parte degli editori: Bitmap Books resta, nel panorama editoriale gaming, un’anomalia meravigliosa.
Sia chiaro, non mancano le concessioni più fisiologiche: alcune saghe vengono condensate per motivi di spazio, alcuni titoli minori restano irrimediabilmente esclusi, e il focus è nettamente spostato sul single-player, con l’online trattato solo laddove autentica chiave di volta del titolo. Si tratta comunque di scelte editoriali che riteniamo estremamente coerenti, figlie della volontà di raccontare non solo l’FPS come genere, ma l’FPS come esperienza culturale.
Proprio per questo Hurt Me Plenty è, in definitiva, molto più di un semplice “ottimo libro”. È un atto d’amore, un gesto archivistico, un pezzo di storia che restituisce dignità anche al più oscuro degli shooter dimenticati. Per chi ha passato le serate su Sauerbraten, per chi ricorda Project Snowblind anche solo per la meravigliosa OST, per chi ha amato Metro 2033 più per l’atmosfera che per le sparatorie: per tutti loro, questo libro è casa.
In Conclusione
Bitmap Books firma un secondo volume che non solo eguaglia il predecessore, ma per coerenza, profondità e varietà, lo supera senza sforzi. Una lettura imprescindibile, per chi è fermamente convinto che, nel videogioco, anche sparare possa essere un vero atto culturale
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Voto Game-eXperience