Lara Croft: un personaggio che non ha certamente bisogno di particolari presentazioni, soprattutto per chi segue attivamente l’evolversi del mondo videoludico. Un personaggio ormai iconico, un’eroina d’azione che si è distinta durante l’epoca 32-bit per poi riemergere nel 2013 con il reboot della serie che proiettava la protagonista nell’era videoludica attuale. Questa volta i ragazzi di Crystal Dynamics hanno lavorato con il team Eidos Montréal per creare Shadow of the Tomb Raider, terzo capitolo della nuova serie che vede Lara proseguire le sue avventure all’insegna del pericolo partendo dagli eventi narrati in Rise of the Tomb Raider.
Questa volta l’atletica ragazza si ritroverà catapultata nell’america latina, terra selvaggia dove la presenza dell’uomo fa ancora a cazzotti quotidianamente con una natura pericolosa e difficile da dominare. I ricercatori senza scrupoli del gruppo Trinità sono alla ricerca di un antico manufatto Maya che (guarda a volte le coincidenze) potrebbe anche essere legato al padre di Lara. Due fazioni cercano lo stesso prezioso oggetto e lo scontro è inevitabile, ma non hanno fatto i conti con le profezie Maya sull’apocalisse: tremendi poteri verranno scatenati e Lara Croft dovrà mettere a rischio la propria vita per salvare il mondo.
Shadow of the Tomb Raider presenta la più ampia mappa esplorabile di tutto il franchise: una scelta in linea con le attuali tendenze del mercato videoludico che spinge verso l’open world con componenti RPG e combat system variegati, il tutto supportato da narrazione cinematografica. Se si potesse riassumere il titolo targato Crystal Dynamics/Eidos Montréal in poche parole, sarebbero quelle che avete appena letto. Un paragone con la serie Uncharted è ormai quasi d’obbligo, e qui si vanno ad aggiungere alcuni tocchi che sembrano provenire direttamente dal più recente (e discusso) capitolo delle avventure del celebre Indiana Jones, alle prese proprio con questo genere di locations e leggende sudamericane.
Il titolo attuale sembra seguire le orme dei predecessori con ammirevole costanza sia nel bene che nel male, ma con alcune differenze sostanziali. In primis l’atteggiamento della protagonista: se nel primo reboot si aveva a che fare con una ragazzina acerba e nel secondo capitolo con un’avventuriera in erba, ora Lara è decisamente cresciuta. In particolar modo l’approccio stealth alle sezioni di combattimento rivela la natura quasi “ferale” che Lara sta sviluppando, comportandosi come un animale da preda. Il gioco presenta numerose meccaniche tipiche degli open world pur non essendolo del tutto, integrando l’esplorazione con parti RPG che comportano lo sviluppo del personaggio in varie direzioni. Tramite la spesa di punti esperienza (ottenibili attraverso svariate operazioni sul campo) Lara potrà modificare il suo approccio al gioco spingendosi sul combattimento brutale, sullo stealth oppure sulla ricerca di materiali per integrare l’immancabile crafting system.
Il gioco si presenta bene esteticamente, con una cura particolare rivolta verso i panorami ammirabili in particolari situazioni: alcune sporgenze fanno da finestra su grandi spazi aperti, creando un effetto scenico notevole che supporta ampiamente la narrazione di chiaro stampo cinematografico. Una direzione che il team di sviluppo sembra voler prendere con decisione, fino ad arrivare agli immancabili difetti che ciò comporta.
Come ho detto molte volte, i videogiochi sono i videogiochi ed i film sono i film: mi sono scagliato in svariate occasioni contro i supposti “parallelismi” tra questi due media, che personalmente ritengo invece inconciliabili per un fatto fondamentale. I film sono narrazioni in gran parte passive, i videogiochi invece dovrebbero far dell’interazione il fulcro di rotazione di tutto ciò che avviene su schermo. Shadow of the Tomb Raider presenta una struttura decisamente “scriptata” in molte occasioni, con sezioni solo in apparenza libere e che invece conducono il giocatore su binari prestabiliti. Il senso del pericolo di molte scene è ampiamente reso graficamente, ma se si esamina la cosa più da vicino è facile notare che si tratta di pericolo solo percepito e di fatto assente: un apprezzabile orpello estetico che però non mette (dopo poco tempo) più in soggezione proprio per l’assenza di reale pericolo per la vita del personaggio.
A spingere ancor di più in questa direzione ci sono i checkpoint automatici assai frequenti che abbassano maggiormente il senso di difficoltà: l’approccio stealth, di fronte ad una IA non propriamente reattiva, si rivela estremamente potente e consente di superare sezioni senza farsi praticamente toccare. Si parla di una partita affrontata a livello di difficoltà paragonabile al classico “difficile”, appena al di sotto di quello massimo selezionabile. Il rischio? Confezionare un film interattivo (assai interattivo, questo va detto) graficamente apprezzabile, con molte deviazioni percorribili e tante cose da scoprire ma con un livello di sfida poco intrigante. Ne varrà la pena? Alla recensione finale l’ardua sentenza.