Il nuovo Alone in the Dark è senza dubbio un titolo sui generis. Atteso, forse addirittura attesissimo da flotte di amanti dell’horror da salotto che, un buon paio di decadi or sono (correva l’anno 1992, per onore di cronaca), trascorrevano lunghi pomeriggi d’estate tra gli angusti corridoi di casa Derceto; allo stesso modo, capace di solleticare la curiosità anche di giocatori meno attempati, che al netto dei due sequel “storici” (rispettivamente ’94 e ’95), avevano avuto modo di conoscere la figura di Edward Carnby nel quarto, discutibile, capitolo maggiore del franchise ribattezzato, nel 2001, The New Nightmare. Un titolo il cui marchio di fabbrica, almeno in quello che ne rappresenta l’archetipo condiviso dagli aficionados della serie, è la mescolanza di tinte noir e reminiscenze lovecraftiane; una storia di terrore e psicopatia dove demoni immortali, loschi culti e discese precipitose nel baratro della follia imbastiscono un ricco ordito tra le cui trame si muove un giocatore non sempre pronto a vedere cosa si cela dietro l’angolo.
Alone in the Dark rappresenta un nome seminale nel panorama dell’horror, fattore da cui deriva un lascito imponente e, in questo 2024, un peso non indifferente da caricarsi sulle spalle. Specie con un reboot dal cast stellare e dalle ambizioni giustamente elevate, più volte rinviato per garantire un’esperienza degna della nomea impressa nella prima di copertina. Com’è andato questo nuovo viaggio a Villa Derceto, vi chiederete: scopritelo con noi, nella nostra recensione di Alone in the Dark.
Ritorno a Villa Derceto
Tolte le sventure di The New Nightmare, su cui a tempo debito già è stato detto abbastanza, saremo tutti concordi nell’affermare che, più di qualsiasi altro aspetto, è la narrazione a rappresentare la chiave di lettura principale di Alone in the Dark. La contaminazione horror/noir condita da riferimenti all’immaginario collettivo dello scrittore di Providence, le atmosfere vagamente goticheggianti con quella patina da film anni ’30, la forte caratterizzazione dei personaggi (primari e non) perfettamente contestualizzati nei modi e nelle usanze dei tempi. Uno di quei film “come si facevano una volta”, insomma, la cui equazione viene arricchita da una componente sovrannaturale perfettamente in sinergia nel tessuto narrativo principale. E, senza scendere pericolosamente nei dettagli di questo nuovo capitolo firmato Pieces Interactive, è proprio questo l’aspetto più riuscito della recente produzione THQ Nordic.
Non è del resto un caso se, già in fase di casting, si sia scelto di puntare in alto. Ottima Jodie Comer nei panni di Emily Hartwood, a dir poco sontuoso David Harbour nei panni dell’iconico Carnby (a quanto pare, lo sbirro – o, meglio in questo caso, il detective – tormentato dal passato e incline all’abuso d’alcool è un ruolo estremamente congeniale alla star di Stranger Things, per giunta grande appassionato di Bethesda). Ma siamo solo alla punta dell’iceberg di ambizioni che muove questo titolo: basti pensare alla presenza della penna incantata di Mikael Hedberg (uomo di punta di Frictional Games che vanta lavori del calibro di Soma o Amnesia: The Dark Descent), alla rifinitura artistica impartita da Guy Davis (collaboratore di fiducia di un certo Guillermo del Toro), addirittura alla benedizione data a Pieces Interactive da sua maestà Frédérick Raynal, il creatore della serie che, in tempi non sospetti, ha elogiato l’ottimo lavoro dello sviluppatore nel mantenere il feel portante del titolo originale.
Detta in modo semplice, il biglietto da visita di Alone in the Dark non passa inosservato. E quella che in fase iniziale può sembrare una storia già vista (la scomparsa di Jeremy Hartwood da villa Derceto, l’ingaggio del detective Carnby da parte della nipote di Jeremy, Emily, preoccupata dalle misteriose dinamiche che avvengono in quella che, a conti fatti, è una sorta di casa di cura per artisti), è solo l’involucro esterno di una sceneggiatura che balla vertiginosamente sopra un filo sospeso tra lucida follia, tradizioni di una New Orleans anni 30 che profuma ancora di voodoo, culti religiosi (si fa per dire) che si perdono nei millenni e, lo citiamo un’ultima volta, quel concetto di orrore cosmico – seppur affrontato in modo più superficiale rispetto ad altri capolavori quali, ad esempio, il citato Amnesia – che risponde al nome di Lovecraft. Certo, non è tutt’oro quello che luccica: nelle battute finali è evidente un’accelerazione più repentina, con un cambio di ritmo evidente e una corsa verso l’epilogo che lascia un accenno d’amaro in bocca laddove si sarebbe reso necessario qualche ulteriore approfondimento.
Allo stesso modo, alcuni dei comprimari (leggasi gli ospiti di Derceto) si limitano ad offrire delle ottime potenzialità non sfruttate a modo, restando relegati nel background quando, idealmente, il loro contributo narrativo avrebbe potuto essere più incisivo. Ma, nel complesso, la sceneggiatura di Alone in the Dark è piacevole ed accattivante, capace di scivolare tra un’intuizione inaspettata e un colpo di scena forse anche solo leggermente atteso, strizzando rispettosamente l’occhio al materiale originale che, in più di un’occasione, viene omaggiato con fare quasi sornione. Ma i problemi, come giusto aspettarsi da un luogo misterioso come Derceto, si nascondono da altre parti.
Un gameplay con più ombre che luci
Superati i titoli di testa, Alone in the Dark dà al giocatore la possibilità di indossare i panni di uno dei due protagonisti, Emily o Edward, seguendone da vicino le vicissitudini e i colpi di scena che si susseguono a Villa Derceto e “dintorni” (come, inutile girarci attorno, i più informati sapranno di certo). La prima nota dolente di questa scelta, tuttavia, è abbastanza evidente, laddove la scelta di uno dei due personaggi non si traduce in nulla di davvero tangibile, se non la variazione di alcune cut scene cruciali e, a voler scendere nel dettaglio, una breve sequenza relativa al passato del PG. Tutto il resto, dagli enigmi (persino le combinazioni) alla narrativa, dagli scontri ai dialoghi, procede in modo pedissequo: una scelta indiscutibilmente opinabile, laddove anche solo una soluzione old school come la celebre “Leon A/Claire B” avrebbe permesso di gettare uno sguardo da angolazioni diversi ad un mistero dalle trame comunque accattivanti. Le differenze sono davvero centellinate sulle dita di una mano – la più evidente, difficile lasciarsela scappare, riguarda un dialogo in fase avanzata che ci vedrà disquisire con un interlocutore differente a seconda del personaggio prescelto.
Si cerca di ovviare a questa limitazione con la giostra dei collezionabili (nel caso specifico, i cosiddetti Lagniappes, qualcosa di traducibile con “piccoli doni”). Ciascuno dei protagonisti ne potrà raccogliere solo un set limitato, obbligando il giocatore ad una doppia run qualora volesse raccoglierli tutti: una scelta ponderabile per i giocatori più curiosi, laddove il completamento di specifici set (questi Lagniappes sono raggruppati in terzetti tematici) permette di accedere ad informazioni normalmente occultate. Non solo: completare alcuni di questi, ad una seconda o addirittura una terza run, garantisce la visione di finali segreti, specifici per il personaggio utilizzato, a fronte del finale “di prima run” che è in tutto e per tutto identico a prescindere dalla scelta.
Un fattore che ok, inserisce un concetto di longevità forzato che i perfezionisti dei trofei non potranno ignorare, ma è determinato più da un mero fattore di completismo statistico che da dei meriti effettivi del titolo. Titolo che, anche in questo specifico frangente, presta il fianco a dei bug non certo trascurabili: zone effettivamente completate e, nella mappa, indicate come ancora da analizzare o contenenti misteri irrisolti, specifiche missioni (e qui parliamo dei famigerati Lagniappes speciali) che non si attivano precludendo del tutto un finale alternativo, magari ad una terza run conclusa. Tutto questo, è bene sottolinearlo, a fronte di una longevità naturale ben diversa: una prima run “alla cieca” difficilmente porterà via più di 10 ore per sopravvivere ai titoli di coda, ma considerata la presenza di un trofeo per chiunque completi la storia in meno di tre ore totali beh, avete capito perfettamente a cosa alludiamo.
Anche le meccaniche di gameplay “pad alla mano” non sono esenti da forzature o difetti. Tralasciando i bug principali, che costellano maggiormente l’impianto tecnologico, Alone in the Dark si basa su una commistione articolata di esplorazione (e risoluzione di enigmi di varia natura, molti dei quali legati alla soluzione di puzzle logici e/o a combinazione) e combat, sia ad arma da fuoco che bianca, contro creature di varia natura. Al netto della possibilità, apprezzabilissima seppur non usata, di usufruire di un set di facilitazioni per i giocatori meno esperti, la componente degli enigmi è senza dubbio quella meglio riuscita. Certo, c’è un pattern evidente e reiterato per gran parte dei puzzle proposti, ma di base il livello di sfida è tarato in modo ragionevole e, in più di qualche occasione, spinge davvero il giocatore a riflettere, a rileggere appunti di gioco o ad analizzare lo scenario circostante. Il tutto corroborato da un fascino per certi versi letterario, quegli enigmi noir con un pizzico di esoterismo che, nel contesto di Derceto, fanno più che egregiamente il proprio mestiere.
Decisamente meno convincente la parte action, a tratti superficiale e molto spesso confusionaria – complice una telecamera poco reattiva e qualche manciata di bug che, inesorabilmente, finisce per far incastrare l’alter ego in qualche angolo dello schermo, condannandolo a vittima indifesa delle mostruose attenzioni nemiche. Se da un lato restare bloccati da uno scalino di 10 centimetri potrebbe sembrare (e spoiler, lo è assolutamente) un qualcosa di anacronistico, sono comunque le meccaniche di base ad essere approssimative e incapaci di regalare il giusto feeling. Bella l’intuizione, nel caso del combattimento bianco, di “rompere” l’arma utilizzata dopo un paio di colpi, ma l’assenza di un meccanismo di lock e un set di animazioni tutto tranne che reattive si traducono sovente in colpi sparati alla cieca che inesorabilmente fendono l’aria e si piantano al suolo. Il tutto, senza scordarsi del fatto che, sia che stringiate tra le mani un piccone, un enorme martello o una staffa di legno, il feel del colpo e dell’impatto non cambiano di una virgola.
Idem dicasi per la parte di shooting: nel contesto narrativo in cui ci si muove è sicuramente apprezzabile la scelta di ridurre l’arsenale bellico (e annesse munizioni) al minimo sindacale, ma la precisione dei colpi, che sia per scelta dei designer o per mal calibrazione, lascia parecchio a desiderare. L’esito è quello più ovvio, in molti casi i proiettili colpiscono il vento e ok, speriamo d’avere qualche altra cartuccia prima di prendere sonori schiaffi. A difficoltà normale, per onore di cronaca, non siamo mai rimasti senza munizioni per più di due minuti (il che la dice lunga anche sulla difficoltà generale del titolo, che si assesta su livelli molto generosi): ma unendo i puntini appena descritti, le fasi più frenetiche si traducono rapidamente in segmenti di cui ci si vuole sbarazzare rapidamente per tornare ai più divertenti enigmi.
Poco da dire anche sull’opzione stealth, che va a braccetto con la possibilità di distrarre i nemici sfruttando appositi oggetti di scena per poi sgattaiolare alle loro spalle: facile ed intuitiva, ok, ma l’assenza di una valorizzazione di questi segmenti ne azzera un qualsivoglia valore aggiunto praticamente dall’istante zero. Il risparmio di proiettili che ne deriverebbe non soppesa in alcun modo la “fatica” di fare tutto in silenzio, insomma, specie quando le cartucce del fucile a pompa sono al massimo.
Alone in the Dark, quando l’atmosfera non basta
Analizzando il versante più “sensoriale” della produzione Pieces Interactive, vale la pena porre da subito l’attenzione su un distinguo fondamentale: la dicotomia evidente che intercorre tra atmosfera e tecnologia. Sulla prima c’è poco da dire: Alone in the Dark ha davvero un’atmosfera riuscita, ispirata e fedele allo spirito originale del franchise. Bastano pochi minuti di gameplay per accorgersi di come il fantasma del “vecchio” Alone in the Dark sia ancora lì, nascosto tra i corridoi di Villa Derceto, in tutto il suo fascino noir e decadente. Misterioso, esoterico, con quel fascino dell’occulto che va perfettamente a braccetto tanto con le architetture della location principale quanto, in certi momenti più che in altri, in quei passaggi esterni che ci vedono impegnati a sopravvivere più attivamente.
Il colpo d’occhio è piacevole, la direzione artistica complessiva gode di forte ispirazione (al netto di un riciclo di asset, specie in termini di creature nemiche, alquanto evidente) e viene supportata sia da un casting sontuoso, sia da una recitazione assolutamente convincente. Il forte accento inglese di alcuni ospiti, i tratti fortemente caricaturali di quella frangia di artisti che accompagnano il duo di protagonisti in questo folle viaggio, sono componenti tutto tranne che marginali, capaci di dare identità al prodotto. Che, inutile dirlo, è supportato anche da un ottima colonna sonora, con musiche anni ’30 calzanti alternate da segmenti più violenti che accompagnano le fasi più concitate.
Peccato che, a fronte di questo, non vi sia un’infrastruttura tecnologica adeguatamente all’altezza. La conta dei bug (di svariata natura) sale rapidamente già nelle prime ore di gioco, con compenetrazioni, lock del personaggio, texture a risoluzione inferiore e altre diavolerie che, in un titolo current gen, inesorabilmente fanno storcere il naso. La componente grafica – in termini assoluti – è solo sufficiente, con una modellazione dei primari tutto sommato accettabile ma decisamente inferiore quanto si parla di “nemici”. Viene da pensare che il filtro retrò, più che per dare ulteriore fascino al gameplay, serva in parte a mascherare una serie di nei altrimenti lampanti con una visuale più pulita. Anche il frame rate si dimostra scostante, con cali evidenti quanto la conta di oggetti animati a video sale più dello standard: tra le due modalità di rendering presenti, Prestazioni e Qualità, la prima è indiscutibilmente la migliore, laddove i 30fps della seconda sono un dazio poco ragionevole a fronte delle non troppo evidenti migliorie legate dall’aumento della risoluzione.
Anche le animazioni, in generale, non brillano per fluidità, apparendo a tratti legnose e rallentate, in altri momenti addirittura ingombranti e fuori logo (specie nel combattimento ad arma bianca). Nulla di trascendentale o capace di rovinare del tutto l’esperienza di gioco, ma viste le aspettative per un titolo dal blasone così nobile, tutto sommato, ci si aspettava un’attenzione maggiore da parte del reparto Qualità – che, in alcuni casi, pare avere chiuso entrambi gli occhi. È prevista una patch al day one per fixare buona parte delle problematiche appena citate, ma quanto riscontrato nel corso di più di due playthrough complessivi rischia di essere troppo anche per una pezza di dimensioni generose. Questo per dire, insomma, che artisticamente parlando Alone in the Dark avrebbe parecchio di buono da offrire: peccato che, a tarparne le ali, stavolta ci pensi la mera tecnologia.
IN CONCLUSIONE
Alone in the Dark, nonostante le buonissime intenzioni, è un titolo che riesce solo a metà. Un terrore che non spaventa mai per davvero, che regala un’ottima atmosfera e una narrativa godibilissima (almeno sino a tre quarti dell’avventura) ma si perde sotto parecchi aspetti. Tecnologicamente, il titolo Pieces Interactive arranca più di quanto avremmo voluto. In termini di gameplay, le interessanti meccaniche esplorative non compensano una fase combat troppo approssimativa. E, soprattutto, la scelta di un personaggio rispetto all’altro aggiunge troppo poco valore all’esperienza, che al netto di qualche minuto di diversità finisce per proseguire col copia e incolla. Un titolo che strizza l’occhio ad una frangia di pubblico nostalgica, che riesce ad intrattenere grazie ad un mix riuscito di elementi narrativi e artistici ma da cui, tutto sommato, ci saremmo aspettati qualcosa di più.
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TOTALE