Recentemente le dichiarazioni di uno sviluppatore dell’ormai defunta Visceral Games hanno fatto discutere parecchio sia i membri della stampa, che gli utenti. La politica spietata di EA sembra non guardare in faccia nessuno, dalla chiusura di studi talentuosi, all’abuso di microtransazioni. Tutto ciò in nome del rientro dei costi di sviluppo, giudicati troppo onerosi per sostenere progetti tripla-A. Tuttavia quello che viene indicato come “costo di sviluppo” è un termine ombrello, che include anche i costi di promozione e pubblicità e altro ancora. Andiamo quindi a fare chiarezza su cosa determina davvero l’esosità nella produzione di un videogioco tripla-A, tale da invogliare certe pratiche.
Tutta la filiera
Nella filiera di produzione di un videogioco possono identificarsi tre passaggi. Il primo è lo sviluppo, quello propriamente detto, ovvero l’attività che coinvolge la programmazione grafica, la realizzazione di animazioni, poligoni, net-code, la scrittura di una trama e di una sceneggiatura, la composizione di una colonna sonora, il doppiaggio, l’inserimento dei sottotitoli,il beta-testing e controllo dei bug e via dicendo. Si tratta di quel genere di lavori che compongono l’essenza stessa di un videogioco, tutti quegli elementi la cui assenza di uno solo causerebbe un risultato finale diverso nel prodotto.
Il secondo è la promozione/marketing che coinvolge tutte le campagne pubblicitarie, su internet, sulle riviste e sui cartelloni, gli eventi pensati per la stampa e per le personalità dei media (come gli youtuber, ad esempio), studi di settore e sondaggi per individuare le fasce di consumatori a cui rivolgersi, intere forniture di accessori regalo (polsino di Fifa? costa. spilletta di Watch Dogs? costa. Chiavetta usb di Call of Duty? costa.) e cartonati da esporre nelle vetrine di negozi e centri commerciali per attirare l’attenzione.
Un discorso a parte lo meritano le fiere di videogiochi, che da sole coinvolgono una serie di spese davvero non indifferenti a cui i giocatori non pensano neppure, ma che concorrono a gonfiare il totale. Basti pensare al costo di affitto degli spazi espositivi, il lavoro di chi monta e smonta gli stand sovente faraonici, la spedizione di tutto il materiale che li compone da una parte all’altra del mondo, le postazioni con schermi, console e pc che fanno girare i giochi.
Il terzo invece riguarda la distribuzione, che può avvenire su due fronti, quello digitale e quello fisico. Nel caso delle piattaforme digitali il processo è molto più semplice e immediato e richiede una commissione sulle vendite. Ciò consente di gestire il prezzo del prodotto in maniera più elastica, decidendo tempistiche e proporzioni degli sconti. Nel secondo invece bisogna affidarsi ad una catena di distribuzione e ai rivenditori dei singoli negozi, due entità spesso non coincidenti in capo alla stessa azienda ed entrambe bisognose di dover ritagliare una percentuale di utile per non lavorare in pareggio o in perdita (un esempio: Halifax che vende a sua volta a Trony). In quest’ultimo caso avviare un periodo di sconti diventa un processo più complicato, perché bisogna coinvolgere più anelli della catena per fare in modo di non creare un danno economico a nessuno di essi, concordando sconti sulle forniture future o altre forme di compensazione. Anche questo viene calcolato quando si commercializza un videogioco.
Conti alla mano
Tuttavia stando alle dichiarazioni di Zach Wilson, Dead Space 2 sarebbe costato 60 milioni di dollari e avrebbe venduto 4 milioni di copie, non generando un profitto significativo. Di questi 4 milioni di copie una percentuale sarebbe stata venduta proprio di fronte a sconti piuttosto consistenti. Tuttavia volendo fare una stima approssimativa e utilizzando cifre al ribasso, i conti non tornano comunque per puntare il dito sul solo costo di sviluppo.
Ipotizziamo quindi che dei 4 milioni, 1,5 (meno della metà) siano state le copie vendute a prezzo pieno (i 60 dollari dell’epoca per un tripla-A), arrivando quindi ad un incasso di 90 milioni di fronte ai 60 sostenuti in produzione. Bisogna poi calcolare l’aggiunta delle copie scontate e la sottrazione della parte spettante agli altri anelli della filiera, ma c’è una voce in particolare che bisogna valutare.
Nel mercato dei tripla-A le spese per la promozione raggiungono spesso quelle dello sviluppo, sino all’enorme percentuale di 50-50. Pertanto Dead Space 2 avrebbe dovuto trovarsi a coprire altri 60 milioni di dollari esclusivamente per ripagare le spese pubblicitarie. Il che lascia spazio ad un quesito: le spese per la pubblicità sono davvero così necessarie?
Chi lavora dentro all’industria non potrà che dire di sì, per una serie di motivi che verranno elencati tra poco, tuttavia bisognerebbe dire “no”, in quanto la pubblicità non è una componente del gioco, non fa parte del processo di sviluppo, non viene decisa e attuata dagli sviluppatori e riguarda semmai il reparto vendite. Tecnicamente, un gioco per essere tale ha bisogno per forza dei costi di sviluppo, mentre potrebbe vendere grazie al passaparola o circostanze particolari (vedi il recente caso di Player Unknown Battleground), appoggiandosi su di una promozione pubblicitaria più contenuta. Pertanto, meglio ribadire, pubblicità e sviluppo sono e restano due cose separate. La pubblicità semmai è una attività di cui c’è bisogno per raggiungere un ritorno economico, ma non inquadrabile dentro al termine “sviluppo”.
In alcuni casi questa voce arriva a gonfiarsi fuori da ogni controllo. Bisogna riflettere attentamente sulle cifre di Destiny, costato complessivamente 500 milioni di dollari, di cui i fondi stanziati per la promozione (pluriennale) hanno superato quelli per lo sviluppo. E vero che si parla di una nuova IP, bisogna però anche considerare che si tratta di uno sparatutto online, un genere di moda, meno bisognoso di particolari spinte rispetto a generi di nicchia, che peraltro si portava dietro una base di fan pre-esistente forte, quella di Bungie, nome molto apprezzato e seguito nel panorama.
Quanto è difficile convincerti a divertirti
Le case, comprensibilmente, non lavorano per beneficenza e devono compiere un’impresa titanica: vendere. Uno scopo che sembra scontato in un mercato dove l’utenza ricerca volentieri l’intrattenimento. Il problema principale è che il pubblico di massa non risponde positivamente se non a stimoli pubblicitari fortissimi, apre il portafogli più in base all’hype, quasi sempre non si sofferma a controllare la qualità di un gioco prima di comprarlo, sovente non considera neanche l’ipotesi della bontà di un titolo se questo è sconosciuto, qualora non abbia addirittura dei pregiudizi (basti pensare a “se non si spara, non è figo”, “se ha una grafica stile cartoon, è roba da bambini”, “se non è famoso, allora è perché fa schifo”).
Le case devono lottare con questo, è bene specificarlo. E lo fanno a colpi di pubblicità perché con quella hanno ottenuto risultati.
Però se i costi di pubblicità sono diventati il fattore che fa saltare il banco, al punto da mettere a rischio la produzione dei tripla-A o snaturarli a furia di inserire microtransazioni o “game-as-service”, allora forse è il momento di cercare altre soluzioni.
La prima ipotesi passa da forme di promozione alternativa, specie nell’epoca in cui internet ha reso più efficace questa pratica grazie alla sua estrema capillarità. L’altra invece è decisamente impopolare, scomoda e considerata fallace per il solo proposito che si propone: sensibilizzare i consumatori, non tanto per fini che qualcuno etichetterebbe come “moralisti”, quanto per il loro stesso interesse (alzi la mano chi compra videogiochi da anni e non ha mai fatto un acquisto sbagliato).
Su questo punto, molta gente che lavora nell’industria rabbrividisce al solo pensiero e invita a rinunciare chi solo osa proporlo. Anche con le migliori intenzioni, l’intento è considerato come un’impresa talmente ardua da far desistere in partenza senza neppure provarci, tanto è scarsa la fiducia che l’utenza riesce a suscitare negli addetti ai lavori.
Invece non bisognerebbe neanche spendersi per sollecitare la buona abitudine all’informazione, specialmente nell’era in cui internet e smartphone hanno reso la ricerca di approfondimenti un’attività veloce e semplice. Farsi un’idea più accurata su di un prodotto è conseguibile nel giro di pochi secondi di ricerca e pochi minuti di lettura. E’ alla portata di tutti, dal ragazzino all’adulto e non comporta fattori come il costo e la reperibilità (che invece era tipico delle riviste cartacee pre-digitale: muoversi fisicamente per comprare una rivista specializzata in edicola spendendo del denaro) e si incastra facilmente nei tempi morti come gli spostamenti sui mezzi o le sale di attesa, senza richiedere sacrificio di tempo libero sottratto a cose piacevoli.
Una possibile soluzione?
Se l’orientamento ai consumi nei videogiochi passasse da un acquisto, anche solo del 30% più informato e riflessivo, le software house si troverebbero nella condizione di non dover spendere così tanto anche solo per far conoscere i propri prodotti e procacciarsi un cliente.
Abbattere quelli che sono veri e propri muri come indifferenza e disinformazione comporta un discorso di sensibilizzazione della categoria dei videogiocatori che è sicuramente meno dispendioso che non mettere in moto costose e gigantesche macchine pubblicitarie, ma altrettanto ostico per via del fattore umano, spesso poco ricettivo.
E’ quindi più facile spendere senza informarsi, salvo poi creare questo corto circuito per cui costa più dare visibilità ad un gioco che non realizzarlo, al punto tale che l’idea stessa di Tripla-A rischia di essere appiattita, passando da multiforme (single player, multiplayer, etc.) a monoforma (quella multigiocatore, preferita perché più facilmente monetizzabile).
Le dichiarazioni provenienti da EA suggeriscono difatti la volontà di spingere verso questo modello per la maggiore monetizzazione, che viene però descritta come dettata non dall’avidità, quanto dalla “dolorosa necessità” di coprire i costi di sviluppo. Tuttavia per rendere credibile questa affermazione, nel suddetto parametro viene inserito di inserito ed equiparato, come se fosse imprescindibile, anche il costo pubblicitario, con un ragionamento non proprio corretto.
Si tratta di due cose diverse e se il modello videoludico tripla-A deve essere trasfigurato per poter rendere sostenibili i conti che non tornano, principalmente a causa di uno dei tre passaggi della filiera, allora c’è bisogno di una seria ridiscussione del metodo da parte dell’industria. Una discussione che, con il supporto nelle vendite di microtransazioni e acquisto di games-as-service, l’industria non sembra voler prendersi la briga di fare, limitandosi a scaricare il problema sul consumatore, senza curarsi se questo può portare ad un panorama videoludico tripla-A più piatto, raffazzonato, ripetitivo e povero.