Resident Evil Village è l’espressione di una Capcom perfettamente in controllo della propria serie e di un percorso evolutosi nei suoi venticinque anni: per capirlo, serve una consapevolezza che non tutti i giocatori dimostrano di voler avere
“The essence of Resident Evil is the fear of losing consciousness and free will.” Trovo non esistano parole migliori per introdurre un argomento tanto importante quanto spinoso come quello di Resident Evil: è una citazione tratta dall’intervista a Kenichi Iwao – sceneggiatore del capitolo originale – concessa al sito Crimson Head in occasione del decimo anniversario dello stesso. Poche parole che da sole dovrebbero zittire chiunque pretenda di dettar legge su un argomento in merito al quale dimostra, anzi, tutta la propria ignoranza; perché se a parlare è l’uomo che ha permesso al tanto amato Resident Evil del 1996 di essere quello che è, forse si potrebbe avere l’umiltà di fare un passo indietro e considerare come dopotutto un’opinione non dovrebbe sempre essere espressa, a maggior ragione se confutabile nel giro di un paio di click su internet. Il problema però è anche questo: la manifesta negligenza nel volersi informare e provare a costruire un dibattito che non sia fondato su una sterile nostalgia o, ancor peggio, sull’idealizzazione di una serie chiarissima nei suoi intenti.
“Non chiamatelo Resident Evil. Resident Evil è morto nel 1999 (o 2004, per i più temerari che citano Outbreak: File #2 a difesa). Un FPS spacciato per survival horror. Vampiri e licantropi? Cos’è, Van Helsing? Resident Evil è Raccoon City e zombi, punto.” È solo una piccolissima parte dei commenti che si trovano in riferimento a Resident Evil Village sui social o su qualunque portale di informazione videoludica, alcuni sprezzanti e altri espressi con una saccenteria che farebbe tenerezza… se prima non chiudesse entrambe le arterie carotidee in sequenza. Difficile dire se sia una corsa a chi si crede più simpatico o una manifesta dimostrazione di quanto la nostalgia possa essere il peggiore dei paraocchi, un virus che muta le persone in creature refrattarie al cambiamento o al minimo di cultura necessaria per parlare di qualcosa senza sembrare fuori luogo. La colpa è anche nostra, di noi occidentali intendo, che abbiamo sempre trattato la serie per il b-movie che non ha mai voluto essere; certo, potrebbe averne mutuato qualche elemento soprattutto agli esordi, ma si tratta in ogni caso di una percezione filtrata dalla nostra cultura che non valuta dove si sia sviluppato il progetto. Senza considerare poi un lavoro di localizzazione giapponese-inglese letteralmente assassino, che ci ha restituito un immaginario piegato (e piagato) dalla società di riferimento affinché ne rispetti i canoni e la forma mentis.
L’essenza di Resident Evil non è nel suo genere videoludico
Fatte queste premesse, si tocca l’argomento principale di questo articolo. Che cos’è Resident Evil? Non vi sto chiedendo cos’è un survival horror – perché, sorpresa, quando faccio questa domanda mi sento rispondere con argomentazioni che puntano tutte al gameplay, all’atmosfera e più in generale a caratteristiche tipiche dell’esperienza ludica; vi sto chiedendo che cos’è Resident Evil. C’è un importante distinguo da fare, sforzo verso il quale ho notato mancanza di voglia e capacità, per tracciare una linea netta tra cosa sia Resident Evil in quanto universo narrativo, dunque perché funziona ancora adesso, e su cosa sia invece come videogioco.
Resident Evil è una grande tragedia famigliare su scala mondiale; una storia di bioterrorismo ed esperimenti al limite del reale che va ad amalgamarsi con tematiche prettamente moderne tra cui le armi biologiche, le sperimentazioni umane, cosa significa essere o non essere umani, nonché con le dinamiche economiche e aziendali che possono nascondersi dietro tutto questo. Un costante, coerente bilanciamento tra il realistico e l’idea degli sviluppatori, così da fornire un’esperienza quanto più possibile “vera”. Non è nemmeno un caso che la linea temporale della serie combaci con la nostra: gran parte delle sue basi narrative, soprattutto quella riguardante la cosiddetta “fantamedicina”, nasce dalle reali scoperte in ambito medico/scientifico che sono poi adattate allo scopo. Basta scavare ancora un po’ in superficie, inoltre, per scoprire come Resident Evil abbia preso la tragedia dell’11 settembre 2001 e ne abbia in buona sostanza tratto un what if: da allora, gli Stati Uniti hanno lanciato una campagna internazionale militare nota come War on Terror, che dall’iniziale obiettivo di affrontare organizzazioni legate ad al-Qaeda si è non troppo lentamente trasformata in una lotta al sempre più crescente bioterrorismo a causa della disponibilità di armi biologiche e, di conseguenza, della nascita di nuovi gruppi terroristici. Tante cose per sminuirlo a un b-movie trash dove si spara agli zombi, no? Del resto va ricordato che il nome vero di Resident Evil è Biohazard, testualmente “rischio biologico”: gli stessi zombi di cui molti si riempiono la bocca non sono davvero tali, e qui mi ricollego alla dichiarazione di Iwata a inizio articolo. Quando si parla di zombi, per retaggio culturale occidentale si pensa immediatamente ai morti viventi di George Romero, di Robert Kirkman, insomma a quell’immaginario che vede un cadavere risorgere per trascinarsi a cibarsi di carne umana. In Resident Evil non funziona esattamente così: la concezione dietro allo zombi, che sarebbe più corretto definire semplicemente infetto, è quella originale haitiana di un corpo privato della propria anima – ridotto a mero strumento dallo stregone che se ne è impossessato. Qualcuno, insomma, non più padrone delle proprie azioni ed è proprio qui, in questa paura che gli haitiani provano non verso lo zombi in sé ma verso la possibilità di diventarlo perdendo così il libero arbitrio, che respira l’intera essenza di Resident Evil: la paura di non essere più se stessi, di smarrire l’unica cosa che rende davvero umani.
Fateci caso. Tutte le creature di Resident Evil, dagli animali agli esseri umani, sono diventate vittime di virus, parassiti o muffe contro la loro volontà; nessuno escluso. Nemmeno i cosiddetti antagonisti, anzi: non Albert o Alex Wesker, entrambi parte del folle progetto di Ozwell Spencer; non William Birkin, costretto a iniettarsi il Virus G ormai prossimo alla morte dopo l’attacco di Hunk e della sua squadra; non Alexia Ashford, che pur essendo la più crudele e consapevole, al punto da usarsi come soggetto per il T-Veronica, è comunque un esperimento da laboratorio creata al solo fine di dare nuovo lustro alla decaduta famiglia; non Excella Gionne, ingannata dallo stesso Wesker per poi essere gettata via; non Carla Radames, spinta a diventare un clone di Ada Wong dal suo amore (non corrisposto) per Derek Simmons; non i Baker e neppure Eveline; persino Madre Miranda e ancora di più i quattro Signori di Resident Evil Village. Questo giustifica le loro azioni? No, certo che no, semplicemente li plasma, dona loro una profondità che troppo spesso viene trascurata da chi gioca perché tanto non è possibile aspettarsi qualcosa di serio da un gioco dove si prendono a pugni i macigni – e, di nuovo, è incapace di fare quella distinzione necessaria per dare a Resident Evil meriti che sono lì da vedere.
Una “fantamedicina” con i piedi per terra
Se pensate che questo discorso sia troppo filosofico e preferite restare con i piedi per terra, puntualizzando sulla coerenza di Resident Evil sul piano scientifico, lamentando che ha preso una deriva sci-fi quando non addirittura fantasy con l’ultimo capitolo, c’è un’altra cattiva notizia: il gioco è stato concepito proprio come horror fantascientifico, quindi se vi fate andare bene le mutazioni di Dead Space, o perché no quelle di The Last of Us che fa leva proprio su un fungo, è quantomeno bizzarro non riuscire ad accettare quelle di Resident Evil che peraltro, come già detto, hanno basi assolutamente concrete. Sì, persino le stesse del tanto deriso o disprezzato Village sono tra le più radicate possibili. Certo, non manca la componente folkloristica dettata dall’ambientazione scelta ma con qualche ricerca, un po’ di pazienza e soprattutto la consapevolezza che in agguato, a ostacolare la comprensione, c’è una localizzazione discutibile, ne esce un quadro perfettamente logico di rischio biologico, di Biohazard: laddove il megamicete (la cui traduzione corretta sarebbe micorriza) è in realtà un particolare tipo di associazione simbiotica tra fungo e pianta che non necessariamente lo rende negativo, il Cadou è frutto di una manipolazione da parte di Madre Miranda, che ha infettato un campione di micorriza con dei nematodi – vermi parassitari di cui si contano circa ventimila specie. Da qui, sapendo che i nematodi si insinuano nell’apparato neurologico, muscolare, circolatorio, intestinale e tissutale/epiteliale, e contando che i quattro Signori sono infettati dal Cadou, abbiamo la spiegazione del perché siano quel che sono: Alcina Dimitrescu, che non è una vampira come si continua a sostenere ma una donna affetta da una malattia ereditaria del sangue, diventa una creatura costretta a nutrirsi di carne umana e sangue affinché le sue proprietà di rigenerazione si mantengano, rigenerazione che peraltro comporta una crescita fuori misura del suo corpo; Donna Beneviento, affetta a sua volta da una grave malattia mentale, vede le sue condizioni cliniche aggravarsi a causa del Cadou che “in cambio” le permette, producendo ferormoni e sfruttando piante allucinogene, di amplificare le visioni delle persone; Salvatore Moreau potrebbe essere stato colpito tanto nell’apparato tissutale/epiteliale quanto in quello intestinale, date sia la deformazione fisica sia la produzione di reflussi acidi; Karl Heisenberg infine è forse il soggetto più complesso e in cui l’infezione possa considerarsi sistemica, poiché presenta organi elettrici (specializzazioni di tessuto nervoso o muscolare simili a quelli dei Narkidae) che sono poi connessi al sistema nervoso in modo da permettergli di controllare i campi magnetici. Si tratta di una spiegazione sommaria, che mi evita di entrare in dettagli per cui l’articolo prenderebbe una piega fin troppo scientifica, sufficiente tuttavia a chiarire perché con l’ottavo capitolo Resident Evil, o ancora meglio Biohazard, sia di nuovo rimasto fedele a se stesso e alla sua anima. Village è il naturale proseguo di una narrazione ben strutturata, nonostante qualche inciampo nel percorso, nonché la dimostrazione di come Capcom abbia piena consapevolezza e controllo della serie, e di quello che rappresenta da venticinque anni.
Se ancora oggi, nonostante le informazioni siano alla portata di chiunque voglia approfondire un po’, credete che questa serie debba essere il vostro amichevole horror di quartiere, semplicemente l’avete idealizzata e non accettate si riveli per quella che è fin dal principio. Quando tuonate che “Resident Evil non è più Resident Evil” con la sicurezza di chi ha la verità suprema in tasca, non fate che riaffermare quella nostalgia dove siete impantanati dagli anni ’90 e da cui non volete uscire, ottusi come quegli zombi dei quali sentite la mancanza.