Negli ultimi anni, la crescita esponenziale del fenomeno Esport ha portato tantissimi publisher a voler creare la propria gallina dalle uova d’oro, sviluppando un titolo che potesse rivaleggere con i mostri sacri del settore e raccogliere un numero sempre maggiore di consensi tra il pubblico di giovani e appassionati.
È per questo che soprattutto negli ultimi due anni, abbiamo visto moltiplicarsi titoli competitivi, o all’apparenza tali, che spopolano sulle piattaforme di streaming di tutto il mondo, andando a rivaleggiare per pubblico e volume d’affari anche con gli sport classici, come il calcio o il basket, con tanto di tifo organizzato. È palese però, soprattutto agli occhi di giocatori veterani, le differenze tra i nuovi titoli Esport e quelli decisamente più classici, che segnano il distacco tra la prima generazione elitaria e quella attuale, decisamente più popolare e alla portata di tutti. Proviamo ad analizzarla nel dettaglio.
I titoli del passato nascono con uno scapo ben preciso: far divertire impegnandosi. La stragrande maggioranza dei titoli Esport più longevi ha visto nascere il suo comparto competitive come costola accessoria di un single player già ben strutturato. Impossibile non citare con questo Starcraft, Unreal/Quake, Counter Strike; titoli che avevano entrambe le componenti di gioco, non concepiti necessariamente per lo scopo competitivo. L’altra grande prerogativa dei titoli del passato è legata alla loro curva d’apprendimento, totalmente in salita sin dall’inizio. Se infatti giocare in single player poteva dare le basi per muoversi in autonomia all’interno di una partita, capire anche solo come arrivare a fine di una partita multigiocatore era qualcosa di completamente fuori portata per il giocatore occasionale. Se si pensa anche solo a Starcraft, il titolo strategico di Blizzard con la componente esport più longeva in circolazione, viene facile capire quanto i giocatori ed il fenomeno sportivo in sé fossero davvero una parte ristretta di un pubblico di per sé già limitato. Inoltre parliamo di quasi tutti titoli a pagamento, con nessuna o pochissime varianti estetiche, pensati nella loro forma più primitiva per poter regalare ai giocatori la sfida che stavano cercando. Concetto assolutamente analogo riscontrabile nei picchiaduro, da sempre terreno di scontro per i tenaci tra i giocatori.
Se analizziamo invece tutti quei titoli usciti nell’ultimo periodo, è palese il cambiamento nell’approccio e nelle intenzioni degli sviluppatori. League of Legends, Fortnite, Apex Legends, Overwatch, Hearthstone; titoli free to play o a prezzo contenuto, sviluppati appositamente per essere giocati da più persone possibili, con accessibilità elevata e semplici da imparare. Proprio il concetto di facile da imparare, difficile da padroneggiare sembra essere il vettore di tutti i giochi usciti recentemente, dove apprendere le basi è incredibilmente semplice, ma arrivare ad un livello tale da emergere è davvero difficile. Puntare alla massa critica di milioni di giocatori per far emergere pochi campioni si è rivelata negli anni la scelta vincente, con un aumento dell’utenza impressionante, tanto da permettere uno sviluppo economico anche in un mercato lievemente indietro come quello italiano. Sempre di più questi titoli fruibili da tutti sono citati in ogni media, e guardare le partite in streaming sta diventando un vero e proprio passatempo da tutti i più giovani. L’altra grande differenza è la cura nei dettagli e nella personalizzazione; oltre ad essere fonte di guadagno, queste aggiunte e accortezze rendono il gioco godibile anche da chi non è in grado di raggiungere le vette delle classifiche, facendogli apprezzare e sentire parte di sé quel titolo che tanto apprezzano. C’è quindi una reale differenza tra le due generazioni? Sostanzialmente si, ma non per questo c’è da affermare che una sia meglio dell’altra. Entrambe le realtà coesistono saldamente, e il successo di una ha portato alla ribalta anche l’altra.