Troppo spesso ci siamo imbattuti in titoli impegnativi, altre volte invece la necessità di estendere la portata di un prodotto ad un’utenza più vasta richiede l’utilizzo di meccaniche votate a favorire un’esperienza di gioco più semplice e rilassante. Oggi andremo a parlare di quegli elementi che contraddistinguono un titolo piacevolmente impegnativo da un altro semplicemente frustrante o addirittura troppo facile.
Il livello di difficoltà di un titolo e la sua relativa curva di apprendimento costituiscono una parte molto importante dell’esperienza videoludica. A nessuno piace provare e riprovare una determinata sezione per ore ed ore ma un istinto quasi masochista intrinseco nel videogiocatore ci porta a perfezionare la nostra tecnica per poi regalarci quell’attimo di soddisfazione. Pensateci, come vi siete sentiti dopo aver battuto un boss particolarmente difficile magari con un briciolo di vita, sempre sul filo del rasoio ? è una bella sensazione, questo è innegabile.
Nonostante il volere comune punti il dito verso le esperienze “soulsiane” per indicare un particolare livello di difficoltà nel panorama videoludico odierno, il concetto di difficoltà e di senso di sfida ha radici ben più antiche e, al pari con il progresso tecnologico, ha saputo evolversi con il corso degli anni. Quello di cui ci preoccuperemo oggi è sfatare un mito fin troppo chiacchierato che spesso rischia di mettere in cattiva luce le produzioni moderne in favore dei “bei vecchi tempi”. Sicuramente vi sarà capitato o magari siete stati proprio voi a pronunciare la fatidica frase “ eh ma i videogiochi prima erano più difficili”, sbagliato.
Dopo aver assaporato con piacere e nostalgia l’ormai celebre Crash Bandicoot: N’sane Trilogy, la voglia di parlare di difficoltà e degli elementi che la caratterizzano ha trovato la giusta valvola di sfogo. Al di là delle capacità oggettive di un giocatore, Crah Bandicoot: N’sane Trilogy non è un titolo impegnativo in termini di game design ma lo diventa quando ci si scontra con una realtà innegabile: il titolo è invecchiato. La stanchezza in termini di gameplay di Crash porta alla luce un concetto che, pur essendo abbastanza evidente, viene spesso ignorato: i giochi “di una volta” erano più difficili non soltanto perché erano molto più punitivi ma anche e soprattutto perché la tecnologia in quegli anni non permetteva di fare di meglio.
Tra comandi imprecisi, collisioni spesso imprecise e bug grafici, molti dei tanto blasonati giochi “di una volta” traggono gran parte della loro difficoltà proprio da tali difetti spingendoci a chiederci: cosa è davvero difficile?
Non basta una semplice dose di retrogaming per rendersi conto di quanto fosse difficile e punitivo Super Mario ai tempi della sua uscita, bisogna immedesimarsi nel giocatore di quegli anni ed al target al quale era rivolto un prodotto come quello dell’idraulico italiano. Al giorno d’oggi la credenza popolare è quella di titoli che aiutano fin troppo il giocatore per mezzo di mappe, hud e poteri speciali che rendono l’esperienza di gioco troppo facile perché quella semplicità di una volta viene a mancare in favore di un evoluzione non sempre gradita. Rigiocando o ricordando titoli come Ninja Gaiden e Devil May Cry è però impossibile affermare che i videogiochi odierni non abbiano quel livello di difficoltà, semplicemente il senso di sfida viene ampliato rispetto alla semplicità del passato e prende direzioni diverse.
Se è dunque vero che le produzioni più datate puntassero sulla difficoltà per aumentare la longevità complessiva, è anche vero che oggi ci ritroviamo tra le mani prodotti molto più completi che non hanno bisogno di puntare sulla rigiocabilità estrema per risultare soddisfacenti e optano per un concetto di perfezionismo dedicato a coloro che amano le sfide senza dimenticare quei giocatori più casuali che non vogliono sudare davanti allo schermo.
Qual è allora quell’elemento che ci permette di distinguere un titolo sinceramente impegnativo da uno specchio per le allodole che mira alla frustrazione per aumentare la longevità? Riconoscere queste due tipologie di produzioni è molto semplice, una vanta un sistema di combattimento profondo, ricco di sfaccettature e sfumature che puntano ad un’esperienza personale senza sacrificare la difficoltà del gioco che resta comunque ancorata su una base di meccaniche da padroneggiare con il tempo, l’altra mira a condurre il giocatore verso un inutile quanto mai noioso trial and error che fin troppo spesso manca di varietà e personalità. È proprio in questo punto che produzioni come Dark Souls si distinguono da altre come Lords of The Fallen e The Surge.
Un altro fattore molto importante che serve ad individuare gli elementi sui quali si basa la difficoltà di un titolo è la presenza di diversi livelli di difficoltà. Quando ci si trova di fronte ad un gioco che non ci permette di scegliere la difficoltà con la quale affrontare l’avventura si presenta un bivio che porta in direzione diametralmente opposte: il titolo è troppo facile o è troppo difficile. La natura della difficoltà di un titolo può infatti assumere diverse sfaccettature, alcuni si basano sul posizionamento sui movimenti e sull’abilità di infliggere danni senza essere colpiti altri invece, come i platform o i puzzle games, sfruttano l’ambiente e richiedono prontezza di riflessi e padronanza dei comandi, è impossibile aumentare la difficoltà di un platform puro in quanto non c’è modo di rendere fisicamente i livelli più difficili se non aggiungendo degli ostacoli facoltativi.
Allo stesso modo, selezionare il livello di difficoltà può portare a dei cambiamenti diversi da titolo in titolo, su Halo per esempio con l’aumentare della difficoltà aumenta anche l’intelligenza dei nemici e il danno da essi inflitto mentre su altri titoli come Call of Duty ci si limita ad estremizzare i danni inflitti dai nemici senza curarsi della loro intelligenza.
In conclusione, ciò che rende la difficoltà di un titolo piacevolmente impegnativa senza sfociare in frustrazione magari dovuta a difetti oggettivi del titolo piuttosto che a lacune soggettive nella capacità del giocatore, è un delicatissimo bilanciamento tra un ottimo game design e meccaniche di gioco profonde ma allo stesso tempo punitive che non fanno leva sui nervi del giocatore ma che lo spingono a padroneggiare gli elementi di gioco proponendo una curva di apprendimento variabile che permette anche ai giocatori meno hardcore di cimentarsi e di migliorare senza condurli in un baratro di frustrazione, per tutto il resto potete tranquillamente finire Dark Souls giocando con delle banane.