Il signor Arts, chiuse gli occhi, ancora incredulo su quello che aveva appena visto. Un fantasma dalle fattezze di Luke Skywalker che lo aveva trascinato in un viaggio nel passato; il caviale di quest’anno gli era decisamente andato di traverso. Quando li riaprì, non era al sicuro nel suo letto e sentiva freddo, le pareti della sua stanza erano diventate di metallo. Subito cercò di capire dove si trovasse, ma non vide alcun punto di riferimento. Era da solo, in un cunicolo di metallo che procedeva dinanzi a lui, del quale non vedeva una fine e pensando ancora di trovarsi in un sogno, il signor Arts decise di andare avanti per quell’oscuro corridoio, sperando di incontrare qualcuno, o qualcosa, che gli potesse finalmente rivelare il perché di questi incubi. Proseguendo per quelle che sembravano ore, il signor Arts arrivò finalmente ad uno spiazzo più ampio, dominato in tutto da una gigantesca vetrata. Una volta affacciatosi verso quello squarcio sul metallo, la terrificante verità: il signor Arts era nello spazio. Appoggiandosi al vetro, fissò incredulo le luci aliene delle stelle e un gigantesco pianeta che si stagliava dinanzi a lui, talmente grande e vicino che sembrava potesse toccarlo allungando la mano.
“Bello vero? Adoro lo spazio. Nello spazio, nessuno può sentirti urlare”.
Al suono di queste terrificanti parole, il signor Arts si girò lentamente, per scoprire chi fosse il suo interlocutore. Un figura strana si palesava dinanzi a lui. Sembrava un meccanico, con una tuta metallica che tutto era fuorché comoda e una maschera luminosa in viso, che gli copriva interamente il volto. Le parole erano state pronunciate con un tono sintetico, quasi la persona dinanzi a lui fosse un robot.
“Chi sei tu? Dove ti ho già visto, maledetto robot?” chiese impaurito il signor Arts.
“Robot ora mi chiamano. Io sono un ingegnere, ingegnere minerario per la precisione. Isaac Clarke è il mio nome. Ti dici nulla?” disse l’individuo dalla voce metallica.
“Isaac…Clarke? Dead Space?” .
“Esatto mio vecchio amico. Mi avete lasciato qui in esilio, su questa fredda stazione spaziale. E a quanto pare alla fine qualcuno si è ricordato di me. Benvenuto nel tuo presente signor Arts!”.
“Ma cosa vai dicendo? Questo è un sogno. Io devo smetterla di lavorare fino a tardi. Prima il passato, ora il presente, basta! Dai, svegliamoci!”.
Clarke rise con quel suo tono che sapeva di finto “Mi dispiace vecchio mio, questo è tutto fuorché un sogno. Questo è il tuo presente, la tua generazione, i tuoi errori. E io, modestamente, sono qui per rappresentarteli tutti.”
Arts incrociò le braccia e con l’aria di chi cerca di assumere un cipiglio fiero rispose “Bene allora, mostrami questi miei fantomatici errori, dai. Voglio vedere la compagnia più potente del mondo videoludico che errori ha fatto, dai, mio carissimo ingegnere.”
Clarke stette per un attimo in silenzio, quasi a compatire il povero Arts, poi si avvicinò alla vetrata ed indicò il gigantesco pianeta dinanzi a lui. Lentamente questo iniziò a cambiare, e sulla sua superfice apparvero delle chiazze verdi, fino a diventare quello che a tutti gli effetti era un gigantesco campo da calcio, con decine e decine di giocatori che rincorrevano altrettanti palloni, come tante formiche attorno a pezzi di cibo caduto.
“EA Sports è la vostra punta di diamante vero? Ogni anno un nuovo gioco, uguale a precedente, con miglioramenti marginali, ma ogni anno lo stesso successo. Fifa, NBA, NHL, NFL. Tutto in favore dello sport, che deve arrivare puntualmente ogni anno, perché i soldi devono esserci ogni anno. E’ giusto amico mio, ma per cosa hai barattato tutto questo?”
E improvvisamente il campo sparì per fare posto ad una città moderna, ricca di grattacieli e abitazioni, brulicante di vita. “Ti ricordi di loro? Maxis? Sim City? Che fine hanno fatto dimmi?”
Arts prima soddisfatto, iniziò a balbettare una scusa “M-ma Sim City ormai non andava più! Non potevamo investire risorse in qualcosa che era una perdita di tempo! E poi dai, i city builder sono ormai passati di moda e…”
“Stai forse cercando di autoconvincerti? Sim City era la storia, il capostipite di molti genere moderni, e voi l’avete gettato alle ortiche. Un brand ormai andato, perché i soldi dovevano essere investiti in titoli annuali, chiaro. Ma non vi bastavano vero? I titoli annuali non bastano per la tua sete di denaro. Dove li prendete i soldi adesso eh? Dai, dillo tu Arts”. Clarke si stava scaldando, e le luci del suo casco, dal tenue blu che erano, iniziavano a diventare rosse.
“D-dai..dai DLC?” disse Arts, allontanandosi istintivamente dall’ingegnere.
“Bravo, molto bravo. I DLC, i contenuti scaricabili. Una volta si chiamavano espansioni, ti ricordi? Pagavi una cifra, e ti portavi a casa un gioco in più, con tantissime cose da fare. Ora c’è il Season Pass, i pacchetti di mappe, le armi e le skin. Ma per piacere. Ma questo mi andrebbe anche bene. Sono cose in più, che la gente può anche non compare. Ma perché poi mi aggiungete missioni che potevano essere benissimo messe nella trama principale e comprese nel prezzo? Perché dovete lucrare? Perché non erano pronte e quindi le vendiamo dopo? Dimmi Arts, dimmi perché? Almeno avete avuto la decenza di togliere il pass online”.
Il povero signor Arts era con le spalle al muro. Il pianeta dietro di lui mostrava ora un gigantesco tasto download. Doveva fare qualcosa “Queste sono politiche aziendali che un semplice personaggio inventato come te non potrà mai capire! Ne ho fatti di giochi belli in questi ultimi anni! Oh sì! Mass Effect! Battlefield e perché no, anche tu sei una mia creazione!”
Clarke rise fragorosamente, una risata metallica che metteva i brividi. “Mass Effect certo! Una saga fantastica, peccato per quella piccola inezia chiamata FINALE. Una cosa indecente vero? Avete minato la fiducia in Bioware, una casa di sviluppo incredibile, che aveva sbagliato pochissimo fino ad allora. Vergogna! E non provare a nominare me! Guarda cosa mi avete fatto! Guarda! Intrappolato su una nave che non è più mia, costretto a diventare un action, un multiplayer, perché lo volevano tutti. Ma no! Mi avete creato e ucciso nella stessa generazione!”
Nel dire queste parole Clarke sembrava diventato sempre più grande e le luci dell’armatura mandavano minacciosi lampi rossi. Arts aveva paura, e iniziò ad indietreggiare sempre di più, finché non arrivò al muro. Era braccato. Ma Clarke si fermò. Pian piano le luci tornarono del rassicurante colore azzurro, e il tono di voce si fece più pacato. Mentre le immagini sul pianeta cambiavano dal profilo della Normandy a quello dei mostruosi necromorfi, Clarke riprese a parlare.
“Perdonami amico mio. Quando si parla di me tendo a diventare un po’ aggressivo. In effetti è vero. Ne hai fatte di cose belle, forse in memoria dei bei vecchi tempi. Tutte queste sono delle perle, però se devo dirla tutta, la mia preferita è lei.” E al pronunciare queste parole, sulla superficie del pianeta comparve il volto di una ragazza, una fanciulla dalle fattezze orientali.
A vedere quel volto, il signor Arts ebbe una fitta al cuore. “Faith…” mormorò.
“Già, Faith. Fede. E’ quello che avete portato a molti giocatori. Mirror’s Edge rappresenta l’innovazione. Aveva dei difetti, ma avete creato un’icona nuova, cosa non facile. Avete creato un nuovo stile.”
Arts era come incantato “Già..punto molto su di lei. Catalyst sarà il nostro gioiello.”
“Ne sei sicuro?” domandò Clarke.
“Che vuol dire? Cosa sai che io non so? Parlami Clarke!” esclamò di getto il signor Arts.
La maschera dell’ingegnere non lasciava trasparire nessuna emozione. Lentamente, quasi a volersi scusare, Clarke iniziò ad indietreggiare. “E’ tardi ora, devo andare”.
“No! Cosa sai di Faith? Dimmelo! Dimmi che sarà un successo! Dimmi che sarà il nostro gioco! Dimmelo!” esclamò il signor Arts.
Ma Isaac Clarke voltò le spalle al povero signor Electronic Arts, dileguandosi piano piano nella nebbia che si stava alzando sulla stazione spaziale. Clarke aveva di nuovo freddo, era di nuovo da solo, e l’ultima cosa che vide prima di chiudere nuovamente gli occhi fu il viso di Faith che lo osservava dal pianeta, uno sguardo di malinconia perso nel cosmo.
SI CONCLUDE DOMANI