Bandersnacth: chi di voi possieda un account ad una delle più popolari piattaforme di streaming di questo momento sa che questo è il nome dell’ultimo speciale di Black Mirror, uno speciale che esce sotto il periodo delle festività natalizie e in maniera completamente slegata sia alla quarta che alla quinta futura stagione, un po’ come accadde qualche anno prima con l’episodio “White Christmas”. Un episodio che non è uno speciale solo nella sua modalità di pubblicazione, ma anche nel concept stesso, trattandosi del primo film interattivo legato alla fortunata serie di Black Mirror ed una delle prime esperienze interattive disponibili sulla piattaforma, insieme ad una versione per Netflix di Minecraft: Story Mode, il gioco di TellTale, ed una serie di altri contenuti dedicati ai bambini aventi come protagoniste le loro mascotte. Siamo quindi di fronte al primo contenuto per adulti avente scelte multiple e finali differenti che si sia visto su questa piattaforma: caratteristiche che se per una persona non avvezza al mondo dei videogiochi potrebbero rappresentare qualcosa di del tutto nuovo, per noi videogiocatori si tratta di qualcosa con la quale abbiamo già avuto confidenza nel corso degli anni. In questa sede non ci metteremo a recensire Bandersnatch: non siamo esperti cinematografici e non abbiamo le conoscenze e le competenze adatte, però mi piacerebbe analizzare le scelte che il film presenta allo spettatore e l’impatto che esse hanno sull’avanzamento della trama per cercare di rispondere ad un quesito: può Bandersnatch essere considerato l’anello di congiunzione fra film e videogame?
Chiaramente per poter approfondire queste tematiche, verranno fatti parecchi SPOILER sulla trama e sui diversi finali, quindi se siete interessati a visionare il film ma non l’avete ancora fatto interrompete immediatamente la lettura e tornate più tardi.
Partiamo da una considerazione: quando in un gioco poni un essere umano di fronte a delle scelte, è importante che quella persona si immedesimi con il protagonista della vicenda, che senta che le scelte del personaggio siano le sue scelte. Insomma, serve che la connessione fra il giocatore e l’avatar si instauri nelle prime fasi del gioco: per fare ciò molto spesso si sceglie di realizzare un avatar che ispiri sin da subito simpatia oppure, nel caso di personaggi spigolosi, si mostra un evento della loro vita che permetta al giocatore di capire perché il protagonista abbia sviluppato un determinato carattere, come accade nel prologo di The Last of Us. Bandersnatch ha come protagonista Stefan un ragazzo introverso, chiuso in sé stesso, distaccato dal padre che vorrebbe solo cercare di comprenderlo e orfano della madre: per il pubblico di massa al quale si rivolge questo prodotto non si tratta di un personaggio con il quale entrare facilmente in sintonia, soprattutto nei primi minuti del film. Già questa prima scelta di Charlie Brooker, sceneggiatore di Black Mirror, di delineare in questa maniera il personaggio ci porta ad ipotizzare ciò che Bandersnatch non sia, ovvero l’anello di congiunzione fra il videogioco ed il film: chi a seguito dell’uscita del film su Netflix ha pensato una cosa del genere dovrebbe riguardare attentamente Bandersnatch, le scelte che mette a disposizione e il modo in cui queste vengano presentate per capire che non ci sono molti punti di contatto fra il prodotto di Netflix ed i nostri amati videogames.
Ci rendiamo conto fin da subito che lo spettatore non è alla pari di un giocatore ed ha pochissimo controllo sulla vicenda: in una delle prime scene, quando Stefan si presenta alla Tuckersoft il proprietario della software house, Mohan Thakur, chiederà a Stefan se vuole lavorare allo sviluppo del gioco che il ragazzo sta realizzando, Bandersnatch appunto, presso i loro uffici: se sceglieremo di accettare la proposta il film si interromperà quasi istantaneamente con Stefan insoddisfatto del lavoro svolto insieme al team di sviluppo, un gioco uscito monco per poter essere rilasciato prima di Natale ed accolto con pessime recensioni. Il film allora ci chiederà di rivivere l’ultima scena e di rivedere la nostra scelta e mentre faremo ciò ci renderemo conto che qualcosa è cambiato dall’ultima volta, qualche dettaglio nelle linee di dialogo fra Stefan e Colin Ritman, visionario game designer della Tuckersoft e idolo del giovane protagonista. Questo differente scambio di battute ci porterà a chiederci del perché di questo cambiamento dato che se abbiamo riavvolto l’episodio al “checkpoint” precedente avremmo dovuto rivedere la stessa identica scena. Le ipotesi che mi sono balenate per la testa sono due: o Colin e Stefan sono coscienti del fatto che stanno rivivendo quella scena, oppure stiamo vedendo la stessa situazione da una differente linea temporale ed in entrambi i casi mi aspettavo che se avessi accettato una seconda volta la proposta di Thakur avrei ottenuto un risultato differente. Come però ci insegna Vass in Far Cry, follia è fare e rifare la stessa cazzo di cosa sperando che qualcosa cambi: ed è così che accettare la proposta porta allo stesso epilogo dell’altra volta, al che mi rendo conto che Bandersnatch è un prodotto di intrattenimento che offre interazione ma senza volerci dare un senso di libertà. Quando ho giocato a Detroit: Become Human (che trovate recensito qui) ho notato come le vicende riguardanti i tre protagonisti si muovessero su un solco tracciato da David Cage ed il suo studio, ma la grande abilità di Quantic Dream è stata quella di dare al giocatore la sensazione di una grande libertà, fattore assolutamente assente in Bandersnatch.
O meglio, non del tutto assente dato che comunque il film alcune libertà ce le concede, altrimenti non avremmo i 5 finali, tuttavia mentre Stefan guarderà il documentario su Jerome F. Davies, lo scrittore del libro sul quale si basa l’omonimo videogame di Stefan, in esso verrà spiegato come Davies avesse capito che il libero arbitrio non esiste, che esistono infinite linee temporali dove di fronte a precise scelte binarie ogni persona ha la strada segnata a seconda di quale linea temporale esso sta vivendo. All’inizio queste parole fanno sì che Stefan realizzi che di fronte ad un essere superiore che decide per lui (il ragazzo ha avuto nel corso del film la sensazione che questa entità esista) uccidere il proprio padre non è una scelta così sconsiderata, un po’ perché in una realtà parallela suo padre sarà vivo e vegeto e un po’ perché alla fine non si tratta di una sua decisione, ma di una nostra che ricopriremo il ruolo di entità alla quale Stefan si rivolgerà chiedendo come deve comportarsi. Tuttavia portando a termine l’episodio si capisce come la signora nella videocassetta non stia parlando tanto con Stefan quanto con noi: non esistono scelte in Bandersnatch, tutto è stato già prestabilito da qualcuno e nello specifico quel qualcuno è lo sceneggiatore Charlie Brooker che ha predeterminato non solo quali siano i momenti in cui far effettuare allo spettatore delle scelte binarie, ma ha anche stabilito che ci sono delle strade giuste e delle strade sbagliate. Spesso nelle visual novel tanto care ai giapponesi troviamo delle strutture similari di scelte binari, momenti in cui scegliere fra due opzioni distinte e differenti che contribuiscono a determinare quale finale visionerà il giocatore, se si tratta di un “bad ending”, un “good ending” o l’agognato “true ending”: benché le denominazioni facciano intuire che il true ending sia il miglior scenario possibile, gli altri epiloghi non sono da considerare errati a prescindere (per esempio Steins;Gate 0 riprende la storia del primo episodio partendo da uno dei suoi alternate ending). Quando in Bandersnatch dalle frasi di Colin, dai glifi della scelta binaria (e dell’Orso Bianco) tracciati da Stefan sulle pareti della prigione, dalle visioni dello stesso Stefan comprendiamo che non esiste un bad ed un good ending, ma solo un right ending e dei wrong ending, allora intuiamo che tutto quello che abbiamo fatto fino a quel momento è solo un’illusione voluta dallo sceneggiatore per farti credere che esista il libero arbitrio. La grande differenza fra Bandersnatch e le avventure grafiche, gli interactive drama e le visual novel che ben conosciamo sta proprio in questo: in Bandersnatch il libero arbitrio è una mera illusione. A supporto di questa mia analisi ci sono anche le parole del producer Russell McLean che in un’intervista all’Hollywood Reporter ha dichiarato che l’intendo era quello di far credere allo spettatore di avere il controllo sugli eventi narrati quando invece niente di tutto ciò è vero, quando il film ti spingere a commettere l’omicidio del padre per incanalarti verso il true ending, nonostante non tutti i finali necessitino che questo evento accada per essere visionati. Per un prodotto come Black Mirror, che ha come tema di fondo il progredire delle tecnologie e gli effetti collaterali che ciò implica, la lettura che abbiamo fatto sinora ha perfettamente senso e si sposa con gli elementi cardine della serie, ma se pensiamo di fare dei parallelismi con il mondo dei videogiochi ci rendiamo conto che tutto ciò contrasta irrimediabilmente non solo con le avventure grafiche e con prodotti come Detroit, ma con il concetto stesso di videogioco dove noi assumiamo effettivamente il controllo di un avatar digitale ed è nostro compito quello di portare a compimento la missione preposta, non dello sceneggiatore.
Bandersnatch è un prodotto che utilizza i videogiochi come pretesto narrativo, ma difficilmente potrebbe essere accostato ad essi come elemento di congiunzione: parliamo delle analogie con Donnie Darko e con i wormhole che si possono trovare nel finale in cui Stefan muore sulla sedia dello studio della dottoressa (tra l’altro il mio finale preferito sebbene il più incoerente con il concept dietro al film), parliamo dei riferimenti all’opera più famosa di Orwell, 1984, alle teorie del complotto espresse da Colin ed alle idee di Davies che lo hanno portato alla pazzia. Però no, Bandersnatch non è un videogioco con le sembianze di un film: è un film a tutti gli effetti, inusuale nel modo in cui è stato presentato, ma più lineare di quanto esso voglia far credere.