Resident Evil Village si sta facendo sentire più che mai, tra intense demo e trailer al cardiopalma che lasciano intravedere tutto e niente. Questo vedo – non vedo è una vera e propria forma di corteggiamento nei confronti del giocatore, e non è nuova l’ammirazione che i fan provano per la bella e altissima Lady Dimitrescu, villain particolarmente ispirata, vestita di un abito vintage immacolato e di un cappello a tesa larga. In effetti nello stile così azzeccato di Alcina Dimitrescu (che sarebbe un anni ’30 con intromissioni ad opera degli anni ’50) c’è il sunto della forte vena semi-vittoriana (come periodo) e del gotico (come stile architettonico) che sta rinvigorendo il prodotto. D’altronde il contesto di sfondo della saga non è mai stato negli zombie in particolare – al contrario di quanti pensano – ma nelle numerose e spaventose mutazioni provocate da agenti patogeni e virali che invadono organismi ospiti: Resident Evil ha dimostrato in questo modo di potersi ispirare tanto ai lavori di Romero quanto agli scenari rurali, contraddistinti da una vena grottesca e a volte “vittoriana” in cui vanno e vengono vampiri, lupi mannari, fantasmi e mostri di Frankestein. Resident Evil 4 stesso doveva introdurre un’atmosfera simile, e nei rari video che riguardano le prime fasi dello sviluppo si può ancora vedere Leon mentre affronta quelli che sembrano spiriti inquieti in un castello gotico. Se ancora non ne avete avuto abbastanza di regge signorili, ville dalle delicate rifiniture in mogano e donne flessuose su tacchi a spillo, restate con noi: vi consigiamo tre serie dedicate al filone gotico per ingannare l’attesa in questo speciale di Game & Watch!
I racconti da un Penny
La paura è una signora dalle molte forme: una dispettosa monella che ci guarda con occhi innocenti, una fragile ragazza dalla psiche labile, una vecchia che passeggia ignara di portare con sè la cupa ombra della tisi. Penny Dreadful è il sunto di tutto questo e molto di più: nella serie americana creata da John Logan e ambientata in una Londra vittoriana cupa, la nostra eroina è la fragile Vanessa Ives, tormentata dalla scomparsa dell’amica Mina Murray ad opera del vampiro più popolare del mondo e fonte lei stessa di un male incomprensibile, che si manifesta come lo spirito della Dea Amonette. Formato un fragile sodalizio col padre dell’amica, l’oramai ex avventuriero dell’Africa Sir Malcom Murray, si avvia alla ricerca includendo nel suo gruppo il pistolero americano Ethan Chandler ed il fedele servitore Sembene, venendo sin da subito aiutata dall’enigmatico Victor Frankestein. Se già la connotazione di stampo gotico non fosse ben chiara, ci pensano Dorian Gray e la creatura di cui è padre Frankestein a sistemare lo spettatore con delle interpretazioni da mozzare il fiato, ma anche personaggi inventati come la dolce (ma malata) prostituta Brona, di origine irlandese, le cui sorti si intrecciano con quelle di Ethan e Victor.
L’azione, il dramma e l’intrigo – a volte politico e a volte occulto – si alternano a cadenza regolare senza mai scadere nel banale in questa serie da tre stagioni ispirata in parte alla “Leggenda degli uomini straordinari” ed in parte ai Penny Dreadful, brevi racconti di mistero dal misero costo di un penny (da qui il nome) racchiusi in fascicoli settimanali molto diffusi nell’Inghilterra del 19simo secolo. Oltre alla qualità dell’intreccio, l’asticella della serie viene mantenuta alta dall’intensa interpretazione di Eva Green nei panni di Vanessa, che ci trascina a fondo nel lato più oscuro dell’umanità: tarocchi, sedute spiritiche e mistero si mescolano nei grandi occhi verdi dell’attrice, perfetta nella sua apparente fragilità.
La danza degli spettri
The Haunting of Hill House è una serie horror molto più pacata e che si dilunga sugli aspetti emotivi dei suoi personaggi, ma ugualmente efficace. Invece di vampiri e orrori leggendari qui ci troviamo semplicemente coinvolti nella storia della famiglia Crain, che durante un’estate di inizio ’80 compra la tenuta di Hill House per sistemarla e rivenderla, ignara delle presenze che infestano la casa. Nonostante sia ambientata ai giorni nostri e contemporaneamente nel passato (la vicenda si snoda attraverso le due linee temporali, permettendoci di rivivere i ricordi dei cinque fratelli Crain da bambini e la loro quotidinanità come adulti), l’antica villa che dà il nome alla serie e al romanzo omonimo da cui è tratta, di Shirley Jackson, è la vera protagonista delle vicende e porta con sè quel tocco architettonico gotico di cui gode l’intero setting della casa.
Metà della serie all’incirca è dedicata ai cinque figli Crain – Steve, Shirley, Theodora, Luke, Eleanor – che hanno ognuno la propria puntata e che servono da introduzione, con gli onnipresenti genitori Hugh e Olivia che muovono i fili del presente e del passato. Empatizzare con tutti loro è fondamentale per capire quello che avviene dalla seconda metà di The Haunting of the Hill House, quando lo spettatore viene completamente catapultato in mezzo all’infestazione della casa, perseguitato da entità e paradossi, che qui hanno la loro risoluzione. Le diafane figure di Olivia e di Neill (Eleanor) in camicia da notte, nel corso delle puntate e nei due rispettivi archi temporali, danzano al ritmo di un ballo che è solo loro e della grande tenuta, trasportate come barche nel mare tempestoso di Hill House. Stephen King e perfino Tarantino si sono espressi a proposito della serie Netflix, approvando il lavoro di fino svolto che risulta tutt’altro che splatter, puntando piuttosto su suspence e sottile tensione continua. Hill House gode di quella paura che non ama conclamarsi con urla terribili, ma preferisce sussurrare alle nostre orecchie.
Antenati della psicologia
L’Alienista è una serie di due stagioni ambientata nella New York del 1896, una città ancora in espansione che non solo sembra terrificante nella sua grandezza, ma che viene popolata da figure di ogni tipo: immigrati, rifugiati, borghesi e, ovviamente, assassini brutali. Nella nostra storia seguiamo l’alienista e dottore Laszlo Kreizler e il suo amico illustratore John Moore, che vengono direttamente coinvolti dal commissario di polizia Theodore Roosevelt per indagare su un orribile omicidio: un gigolo ragazzino trovato mutilato ed abbandonato vicino al ponte di Williamsburg, ancora in via di costruzione. Al nostro duo si aggiunge la testarda segretaria del commissario, Sara Howard, decisa a diventare la prima detective donna della città (il chè avrà poi estrema rilevanza nella stagione che segue). Il gruppo cerca quindi di trovare il serial killer con il moderno metodo del profilo psicologico (ancora troppo avant-guarde per l’epoca), creando un’ipotesi di chi dovrebbe essere e di come si comporta in base ai dettagli raccolti dai suoi delitti, arrivando perfino ad anticiparlo nei suoi piani.
Non tanto la ricerca è il perno di The Alienist, quanto l’idea di una società in piena espansione, sotto la pressione dello sviluppo industriale e condizionata da idee raccapriccianti sulla psicologia umana. Spesso, nelle strette vie espanse sempre più in verticale da grandi magazzini ed edifici, troviamo una bassezza morale ed una serie di stereotipi che fanno da contraltare a questa “elevazione”. Idee su come sia giusto trattare una donna od un ragazzino, su cosa sia buono e cosa sia peccato, sull’identità religiosa e l’ideologia razziale. Avere anche solo un problema fisico – come una mano non funzionante – è un’etichetta di disabilità totale, al punto che pure davanti alla ragionevolezza dei pensieri dell’individuo, questi viene trattato con sfacciata malevolenza da parte dei colleghi. Oltre all’architettura in stile gotico, qui abbiamo l’orrore dell’uomo a tutto tondo nelle pratiche di ogni giorno, dalla toeletta al galateo, dallo strato più povero a quello più arricchito.