Ammetto di essere stato in difficoltà nel momento in cui mi sono apprestato a riordinare le idee per scrivere questa recensione dato che stavo cercando di trovare capo e coda della faccenda. Il gioco del quale vi sto per parlare, ve lo anticipo subito, mi è piaciuto e anche parecchio, il fatto è che stavo cercando di capire perché questo gioco mi avesse entusiasmato così tanto. Solo dopo un po’ di tempo passato a scervellarmi pensando a quali aspetti mi avessero maggiormente colpito mi sono reso conto che il vero motivo per cui ho passato decine di ore in compagnia di Nier: Automata (ed una volta terminata questa recensione ne passerò altre decine) è il gameplay. Il puro e semplice gameplay che sempre più di frequente viene messo sempre in secondo piano non solo da chi gioca ma anche da chi i giochi li crea. Nier: Automata è frutto dell’unione degli sforzi del director Yoko Taro, autore tra le altre cose della serie di Drakengard e del suo spin-off Nier (del quale Automata è un sequel), e degli sviluppatori di PlatinumGames, particolarmente noti per i loro frenetici action games fra i quali spiccano perle come Bayonetta e Vanquish. Senza ulteriori indugi andiamo a vedere nel dettaglio quali sono i motivi che mi hanno portato ad apprezzare Nier: Automata.
FOR THE GLORY OF MANKIND
Chiariamoci, nonostante l’introduzione che avete letto nella quale elogiavo il suo gameplay (del quale parlerò fra poco), Nier: Automata si presenta con una storia di tutto rispetto, ma per meglio capirla è bene contestualizzare al meglio la figura di Yoko Taro. Il director giapponese che fondatore dello studio CAVIA è riuscito a radunare una piccola nicchia di seguaci ed amanti dei suoi lavori non tanto per il gioco in sé quanto per la storia narrata al suo interno: Yoko Taro infatti ha sempre dimostrato un grande interesse per le trame grottesche, per i protagonisti spesso privi di valori positivi e per i twist di trama assolutamente non convenzionali, capaci di straziarci l’animo grazie ai suoi risvolti drammatici ed ai finali tutt’altro che positivi anche nei good ending. A fronte però di trame caratterizzate da risvolti unici e mai tentati nel panorama videoludico, non vi è mai stata una cura di tutti gli altri aspetti che compongono il prodotto videoludico: la serie di Darkegard è ben lontana da essere un prodotto con tutti i crismi, adatto ad essere apprezzato da un vasto pubblico e lo stesso Nier, nonostante presenti un’ottima componente narrativa, nel complesso rimane un gioco mediocre e questo suo demerito ha influenzato le vendite del prodotto in tutto il mondo dato che la sola trama non è bastata a rendere il titolo così appetibile, anche per chi predilige i prodotti orientali. Nonostante lo scarso interesse del pubblico, dopo la conclusione dei lavori su Nier Yoko Taro aveva già in mente di realizzare un seguito del suo spin-off, ma i lavori furono momentaneamente accantonati proprio per le poche copie vendute che hanno frenato Square Enix nell’investire in un nuovo episodio della serie fino all’incontro con Platinum. Nier: Automata riprende a piene mani le caratteristiche che hanno reso Yoko Taro così apprezzato dai suoi fan, seppur in un primo momento il gioco non lo dia a vedere. La storia si svolge oltre 110 secoli dopo la venuta di Cristo, in un periodo durante il quale l’umanità è stata decimata in una guerra millenaria contro una razza aliena e contro le biomacchine da loro costruite. I pochi sopravvissuti hanno trovato rifugio sulla Luna dove si sono riorganizzati per costruire una resistenza capace di affrontare la minaccia extraterrestre. Una delle armi create per far fronte alla minaccia è lo Yorha, un’associazione di stampo militaresco che ha come scopo quello di creare un esercito di androidi specializzati nel combattimento e nelle operazioni militari tramite un addestramento pensato per impartire l’obbedienza all’umanità e l’abbandono di qualsiasi tipo di emozione. Protagonista della vicenda è un’androide femmina denominata 2B, un soldato che nelle prime battute di gioco dimostra di essere ligia al dovere e disciplianta oltre che letale per i suoi nemici, la cui vita è però destinata a cambiare dopo l’incontro con un’altra macchina chiamata 9S, uno scouter che dopo la prima missione diventerà partner di 2B. 9S si dimostrerà molto più curioso ed emotivo di quanto il suo ruolo non lo richieda e con il passare del tempo la sua voglia di capire e non semplicemente obbedire finisce per contagiare lentamente anche 2B la quale comincerà ben presto a sviluppare un legame di empatia nei suoi confronti. Nella prima metà di gioco l’avanzamento sembrerà piuttosto canonico, privo di elementi che stravolgono intercedere delle azioni e più focalizzato sull’introspezione dei due personaggi: è ironico infatti che con il passare del tempo i due androidi conoscano sempre di più il lato umano delle biomacchine, ma soprattutto che comincino ad osservare le situazioni in un’ottica differente da quella impartita durante l’addestramento e che si pongano domande sulla vita, l’universo e tutto quanto. Man mano che ci avvieremo verso la fine dell’avventura gli avvenimenti che si susseguiranno saranno sempre più emotivamente impattanti, fino al raggiungimento del primo finale che non è che un preambolo di quello che sono le potenzialità del gioco sul fronte della narrazione. Non ho parlato di primo finale a caso dato che, come il suo predecessore, NieR: Automata presenta una moltitudine di finali (ben 26, uno per ogni lettera dell’alfabeto) e benché solo gli ultimi 5 siano considerabili dei veri finali, ciascuno di esso diventa parte essenziale dell’esperienza di gioco ed è necessario viverla per poter comprendere ed apprezzare fino in fondo l’estro creativo di Yoko Taro. Ecco che quindi il New Game Plus non è solo una feature marginale ma diventa una componente essenziale del gioco stesso che, oltre a diventare fortemente rigiocabile, trasforma la storia e la narrazione ogni volta che inizieremo una nuova run.
2B AN ANDROID
Passiamo ora al piatto forte: il gameplay. Se avete giocato la demo presente sul PlayStation Network, NieR: Automata vi potrà essere sembrato un hack n’ slash piuttosto convenzionale, con i proverbiali attacchi forti, attacchi veloci e schivate, caratterizzato solo dalla presenza di un pod che funge da support capace di aprire il fuoco sui nemici e dai continui cambi di telecamera che lo fanno sembrare talvolta un gioco 3D talvolta uno 2.5D. Dopo quella prima missione, dopo la nostra ascesa alla base spaziale conosciuta come il Bunker ed il nostro ritorno sulla terra ci renderemo conto di quanto questo giudizio sia assolutamente affrettato: NieR: Automata è infatti un titolo che riesce ad unire meccaniche da gioco di ruolo ad un titolo fortemente basato su dinamiche hack n’ slash. Il sistema di combattimento ravvicinato si basa sull’uso proverbiale di riflessi per poter schivare al momento più opportuno un attacco in arrivo da parte di un nemico e, proprio come visto in un altro titolo di Platinum come Bayonetta, lo schivare con il giusto tempismo porta il giocatore in una posizione di vantaggio rispetto al nemico, permettendogli di contrattaccare lanciando in aria l’avversario ed infliggendo una serie di colpi combinati. Oltre a ciò, il gioco mette sul piatto anche alcuni elementi derivanti da uno shooting in terza persona, piuttosto abbozzate a dire la verità ma utili al contesto del gioco: in pratica il nostro pod potrà sconfiggere interi gruppi di nemici senza che a noi tocchi sferrare un solo colpo con la nostra spada dato che la sua potenza di fuoco, seppur non paragonabile agli attiacchi fisici, è comunque sufficiente per farsi stada fra i nemici. Questo comporta due cose: in primis che l’uso di questa arma da fuoco non serve a tenere sospeso in aria un nemico o ad evitare che il contatore di combo decrementi come accadeva in Devil May Cry o Bayonetta (anzi purtroppo un sistema di moltiplicatori del danno è assente in NieR: Automata) ma a permetterci di affrontare nemici tosti e difficili da colpire in corpo a corpo senza dover rischiare la morte (argomento del quale parlerò tra poco), secondariamente bisogna tenere in considerazione che comunque l’azione del pod è limitata dal raggio di fuoco e che ciò porta comunque il giocatore a doversi esporre agli attacchi dei nemici. La parte GDR è invece riguarda tutta una serie di personalizzazioni che potremo applicare al personaggio: oltre all’accumulo di esperienza che si rifletterà sull’incremento del livello e di conseguenza dei parametri come attacco, difesa e vitalità, di 2B potremo cambiare il set di armi, acquistabili presso gli shop o raccogliendole nel corso dell’avventura, ma soprattutto i chip. Questi ultimi non sono che dei dispositivi implementabili sull’androide in uno speciale menu che vanno a sostituire il classico albero delle abilità e che hanno un costo di “memoria” che va a saturare una barra che rappresenta la memoria massima: di conseguenza un’abilità acquisita è temporanea e può essere rimossa per fare spazio a nuove abilità. Non solo, in maniera simile a quanto visto nella saga di Dark Souls, la morte del personaggio comporta alla perdita di tutti i chip equipaggiati e la generazione di un corpo di un androide defunto nell’area in cui siamo morti: per poter recuperare il nostro equipaggiamento dovremo tornare nel punto in cui siamo sconfitti ed interagire con il corpo morto, ma se dovessimo morire nuovamente prima di fare ciò perderemo tutto l’equipaggiamento. Una scelta di game design non nuova ed abbastanza punitiva, ma il gioco portato avanti in modalità normale riuscirà a non rendere eccessivamente frustrante questa meccanica. Di ben altro livello sono invece le modalità di difficoltà avanzate: la modalità difficile ci porterà molto più facilmente alla morte ed alla perdita dell’equip dato che è molto difficile che fra un checkpoint ed il punto in cui siamo morti la strada sia priva di intemperie. La modalità estrema poi fa di tutto per tenerci in continua tensione dato che, in maniera simile a quanto accadeva nelle modalità più estreme di Devil May Cry, subire un qualsiasi tipo di danno equivale a motre istantanea: consigliato solo a chi ha accumulato abbastanza esperienza nelle modalità precedenti. Affiancano la main quest una serie di missioni secondarie che ci permettono di accumulare esperienza e monete extra, oltre che a farci familiarizzare con alcuni personaggi secondari che forniranno elementi di contorno alla già ottima narrazione: a livello di gameplay si tratta comunque dell’elemento più debole del gameplay visto che nella maggior parte delle situazioni dovremo andare alla ricerca di oggetti e tornare a riconsegnarle al richiedente, evidenziando una certa ripetitività e mostrando il fianco anche ad un certo backtracking che alla lunga può risultare frustrante.
Probabilmente il punto più debole della produzione Platinum/Square Enix consiste nel comparto visivo, sia per quanto riguarda la direzione artistica che per la componente tecnica. Parlando della prima, l’attenzione degli autori è stata sicuramente maggiormente posta nei confronti dei personaggi protagonisti e antagonisti: il character design dei due androidi è stato ben realizzato, così come quello degli antagonisti principali che incontreremo nel corso dell’avventura e delle biomacchine più elementari che, per quanto semplici nelle forme, sono comunque modellate in maniera coerente rispetto al contesto narrativo. Ciò che lascia un pochino interdetti sono gli NPC che si possono incontrare nin aree come il Bunker o l’accampamento della resistenza, ma soprattutto la poca attenzione riposta nella realizzazione di alcune aree di gioco: ci sono intere zone come il deserto od il luna park che presentano scorci suggestivi ed affascinanti, ma altre come la fabbrica e la vecchia città abbandonata che presentano una povertà di dettagli al punto da rendere tutto abbastanza artificioso e poco immersivo. Ora, non pretendiamo che il gioco presentasse una città post-apocalittica alla The Last of Us, anche perché come già detto il gioco si fa apprezzare per altri aspetti sui quali gli sviluppatori hanno messo l’accento, ma speravamo che i palazzi non fossero dei semplici parallelepipedi coperti da texture. E in tema di texture, non si può non far presente quanto la loro bassa qualità unita alla povertà di dettagli ed altre magagne tecniche (come un’occlusione ambientale non proprio ben realizzata che sporadicamente fa levitare i due protagonisti sul terreno oppure qualche pop in di nemici ed elementi di contorno) siano il vero anello debole della produzione. Certo, va tenuto in considerazione che il gioco, pur essendo un open world, si mostra con un frame rate a 60fps su PlayStation 4 PRO e sicuramente per raggiungere tale risultato su console gli sviluppatori avranno dovuto scendere a compromessi con l’hardware della macchina, ma non vi nascondo di come tutto ciò renda la resa visiva parecchio estraniante. Di tutt’altra caratura è invece la componente sonora: io il gioco l’ho fruito con il doppiaggio inglese che è una lingua a me comprensibile (anche e soprattutto per l’impossibilità di leggere i sottotitoli durante alcuni frangenti) ed i dialoghi dei vari personaggi, sebbene solo quelli legati alle situazioni più importanti siano doppiati, sono comunque di ottima fattura. Quello che però è davvero di pregio nella parte audio è la colonna sonora: le tracce sono tutte molto ispirate e d’atmosfera, ben contestualizzate con l’azione a schermo ed alternano ritmi veloci a pezzi lenti e maestosi, molto spesso ripresi e riproposti in più versioni ed accompagnate da un cantato melodioso. Inoltre tramite un jukebox presente nel gioco potremo riascoltare una traccia della colonna sonora una volta sbloccata.
PRO
- Trama non convenzionale e coinvolgente
- Il gameplay ibrido è una vera innovazione
- Azione frenetica a 60fps
- Colonna sonora meravigliosa
CONTRO
- Comparto tecnico sottotono
- Alcuni scenari sono un po’ troppo spogli
- Alla lunga emergono ripetitività e backtracking nelle missioni secondarie
Versione testata: PlayStation 4 Pro
Voto: 8,5