Correva l’anno 2012 e Quantic Dream era concentrata sullo sviluppo di Beyond: Two Souls, ambizioso progetto del team francese che sarebbe stato pubblicato l’anno successivo, sul finire dell’era PS3, e che vedeva nel cast di attori due nomi provenienti direttamente da Hollywood: Williem Dafoe ed Ellen Page. Nel 2012, proprio in vista del nuovo gioco in arrivo, Quantic Dream pubblicò Kara, una tech demo che voleva mostrare le tecnologie di motion capture ed il nuovo engine che il team di David Cage (fondatore di Quantic Dream e director dei giochi sviluppati dallo studio) stava impiegando per realizzare Beyond: Two Souls, specificando però che il progetto in questione non aveva niente a che fare con un gioco in sviluppo. Il video però piacque ai fan più di quanto lo studio si aspettasse e Cage decise di dar via ad un progetto basato su quella tech demo: Kara, un androide capace di pensare e di provare emozioni, divenne quindi parte di un progetto molto più ampio che fu annunciato nel 2015. A 6 anni di distanza da quella tech demo abbiamo finalmente messo le mani su Detroit: Become Human, ovvero l’ultimo lavoro di David Cage e Quantic Dream.
Prima di iniziare mi preme sottolineare che in questa recensione non ci saranno spoiler sui fatti narrati, ma che in alcuni casi farò degli esempi riferendomi ad alcune sequenze del gioco, senza però entrare in dettagli che potrebbero rovinare l’esperienza di gioco.
Ma gli androidi sognano pecore elettriche?
Fatto questo breve excursus sulle origini del prodotto, partiamo dalle cose facili: che cos’è Detroit: Become Human? Come tutti quelli che conoscono i lavori di Quantic Dream su PS3 sapranno, Detroit: Become Human è un titolo difficile da ascrivere in un genere preciso: potrebbe essere paragonato ad un’avventura grafica, ma si tratta di una categoria che sta piuttosto stretta a Detroit dato che non condivide con la maggior parte di esse le meccaniche di gameplay. Diciamo più che Detroit: Become Human è una storia dove il giocatore non viene proiettato nel mondo di gioco tramite un avatar, ma è più un attore che deve interpretare il ruolo di protagonista, mettendosi nei panni dei personaggi ed agendo come se fossimo nella sua situazione. Il nostro agire però non è mai libero da ogni vincolo dato che la sua narrazione procede su binari stabiliti dal director, che in questo caso può essere visto come un vero e proprio regista delle vicende. Questo ha delle ripercussioni su ciò che è la capacità di scelta del videogiocatore: Quantic Dream quando realizza un gioco lo fa ponendosi un obiettivo, quello di guidare il giocatore lungo una storia già prestabilita, ma lasciando dei margini decisionali al giocatore per non dargli la sensazione di eseguire in maniera pedissequa i comandi imposti dal gioco. In questo senso Detroit funziona molto bene nello svolgere il suo ruolo: ci fa sentire come se la vita dei protagonisti e dei loro alleati fosse in mano nostra e dipendesse dalle nostre scelte, ci fa pensare di avere la situazione sotto controllo, finché tutte le decisioni operate, anche quelle che pensavamo non avessero ripercussioni a lungo termine, collimino in un finale dove la vita e la morte dei protagonisti sono strettamente legate a come ci saremo comportati in tutto il corso della partita. In questo senso Detroit: Become Human è veramente uno dei prodotti più completi di Quantic Dream: nonostante le scene si susseguano in maniera pianificata, senza mai cambiare troppo di partita in partita, davvero il numero di bivi narrativi inseriti nel diagramma visualizzabile nel menu di pausa è rappresentativo dell’andamento dell’intero gioco: i punti in cui le nostre scelte possono determinare la sopravvivenza di un personaggio nel corso della partita sono molteplici e distribuiti lungo tutte le 10 ore necessarie per portare a termine il gioco. Ma di cosa parla Detroit: Become Human? Siamo in un futuro non troppo remoto, distante appena 20 anni: in questo mondo una compagnia americana, la Cyberlife, è diventata celebre per aver creato degli androidi dotati di una sofisticatissima intelligenza artificiale che permette loro di svolgere un grandissimo numero di compiti con la stessa abilità con cui lo farebbe un essere umano, se non meglio. La diffusione sempre maggiore di androidi nelle case e nei settori lavorativi ha sconvolto in pochissimo tempo la società occidentale e gli androidi vengono visti di cattivo grado dagli umani, che li ritengono non solo dei meri oggetti privi di emozioni e sensazioni, ma anche la causa del dilagare della disoccupazione, soprattutto fra le fasce più povere della popolazione. Il disprezzo si trasforma in odio, l’odio in violenza e di fronte alla violenza alcuni androidi, decidono di reagire: nascono così i devianti, androidi che hanno sviluppato una propria coscienza e che si oppongono alle regole stabilite dal codice di programmazione. Da questo contesto inizia la storia di Detroit: Become Human, una storia che parla di tre androidi ed indirettamente anche di tutti gli altri loro simili: la prima, Kara, è una governante che si affeziona alla figlia del suo padrone e che decide di intervenire quando scopre che il padre è violento nei confronti della ragazzina, accusandola di essere la causa dell’abbandono da parte della moglie; il secondo, Markus, è un esemplare unico che fa da badante ad un anziano artista molto popolare che lo rispetta come se fosse un suo pari e lo tratta con amore paterno e questo non fa che suscitare gelosia nel figlio biologico del suo padrone; infine abbiamo Connor, un androide realizzato appositamente dalla Cyberlife con il compito di affiancare la polizia di Detroit per indagare sui recenti casi di violenza sugli umani da parte degli androidi e cercare un filo conduttore che permetta alla Cyberlife di capire cosa trasformi gli androidi in devianti. Con l’avanzare della trama le tre storie non potranno fare a meno di intrecciarsi, fino a diventare un’unica grande storia che parla di desiderio di libertà. C’è una caratteristica che emerge da questo come da altri lavori di Quantic Dream, ovvero il fatto che quello che Cage vuole fare con i suoi giochi non è raccontare una storia ma un’emozione, ovvero la costruzione degli eventi e la loro narrazione non è fatta con l’intento primario di offrire un racconto coerente in ogni sua parte ma ha come priorità quella di coinvolgere direttamente il giocatore all’interno dei fatti facendolo empatizzare sin da subito con tutti i personaggi presenti ed è per questo che i protagonisti non sono spigolosi e scorbutici (ruoli che di solito vengono relegati ai comprimari, in questo caso il tenete Hank Anderson che lavora sul caso insieme a Connor): possiamo capire che questa scelta è sia dettata dal fine ultimo, dalla visione che Cage ha del videogioco, sia per far pesare al giocatore le proprie scelte in modo che non vengano compiute con leggerezza o indifferenza. Tuttavia, esattamente come accade per il giocatore, anche il gioco paga lo scotto delle scelte operate dai suoi creatori: non posso negare che nel corso dell’avventura che viviamo non manchino dei punti in cui la trama risulta incongruente o poco credibile (si basti pensare che la ribellione dei devianti ed i fatti ad essi associati si svolgono in un arco temporale di pochi giorni) e che comunque non eccellono né per originalità né per qualità narrativa, specie se confrontato alle decine di opere (non solo videoludiche) che hanno cercato di sviscerare il tema degli androidi e dell’esistenza di una coscienza in essi; senza poi contare le scene messe unicamente per rafforzare il legame emotivo ma che alla fine dei conti risultano fin troppo patetiche (per chi ha già avuto modo di giocarlo, mi riferisco alla scena della giostra nel parco divertimenti). È un peccato che Cage molto spesso decida di non approfondire aspetti e tematiche che decide di presentare nelle sue opere con il solo fine di dare una cornice narrativa alla sua storia dato che alcuni di essi sono temi che riguardano la nostra contemporaneità e sono tuttora molto discussi. In Detroit: Become Human si parla di ambiente, di una Terra che ormai è priva di risorse e sta morendo, di estinzione delle specie, di guerre fra superpotenze per appropriarsi di territori ricchi di risorse, si parla di segregazione razziale, di esseri viventi e senzienti trattati come oggetti, di disoccupazione a causa dell’automazione, di relazioni umane sempre più fragili, di sesso con gli androidi che sta rimpaizzando le relazioni affettive con gli umani, di spionaggio e di assenza di privacy, si cita Abissi d’acciaio, Balde Runner, l’Uomo Bicentenario e 1984: tutti elementi che danno l’impressione che Cage voglia dire qualcosa, che voglia raccontare uno spaccato del mondo moderno dal quale trarre una critica sociale, ma alla fine si rivelano tutti temi messi al servizio del fattore emotivo descritto qui sopra.
Cogito ergo sum
Trattandosi di un gioco fortemente story driven in linea con le produzioni PS3 dello studio, l’interazione con il mondo di gioco avviene quasi unicamente tramite azioni contestuali che cambiano di volta in volta nel corso della partita: per farla breve, premere un pulsante qualsiasi in un punto qualsiasi di ciascun livello non porterà alcun risultato diretto, ma quando saremo a portata di un oggetto od una persona con la quale interagire l’HUD mostrerà a schermo quali pulsanti premere di volta in volta. Il gameplay è quindi ridotto all’osso come da tradizione Quantic Dream, limitato solo ad un’interazione che nella maggior parte dei casi farà scaturire una cut-scene o un dialogo che servono nella maggior parte dei casi a portare avanti di un pezzettino la narrazione, negli altri a dare maggiori informazioni ai protagonisti che potrebbero usarle più avanti a loro vantaggio o anche solo ad arricchire di elementi di contorno la narrazione del gioco. Non è quindi corretto parlare però di gameplay basato sui QTE come invece vengono speso apostrofati i giochi di Quantic Dream: le sequenze comprensive di quick time event non mancano ma sono solo una parte del gioco, relegate perlopiù alle fasi di combattimento ed inseguimento, per il resto si tratta di azioni contestuali. Nonostante l’enorme somiglianza con Heavy Rain e Beyond: Two Souls, qualche novità è presente nel gioco: è stata inserita una sorta di modalità detective alla Batman Arkham che permetterà agli androidi di analizzare le scene del crimine e ricostruire i fatti accaduti, oppure elaborare come il personaggio si potrebbe muovere all’interno dello scenario per raggiungere una zona elevata oppure fermare un drone prima che ci individui. L’alternarsi dei tre androidi ha permesso a Cage di delineare un certo tipo di approccio per ognuno dei protagonisti: Kara sarà quindi più votata al nascondersi ed al ridurre al minimo i sospetti della polizia su di lei e su Alice, Connor farà ampio utilizzo della visione da detective per scovare indizi, mentre Markus sarà quello che si ritroverà più spesso in mezzo agli scontri ed avrà a che fare con delle fasi di QTE. Questa diversificazione dei tre tipi di approcci a seconda di quale androide controlleremo in quel momento avrà come conseguenza quella di dare una sensazione di un gameplay diversificato nei vari momenti del gioco, riducendo una certa sensazione di monotonia che avevo invece riscontrato ai tempi di Beyond: Two Souls. Ciò che fa storcere il naso sono però alcune scelte di level e game design: da una parte abbiamo degli androidi che devono obbedire ad un programma ben definito e che quindi quando ricevono un ordine sono tenuti ad eseguirlo, avendo pochissimo margine di manovra. Diventa pertanto facile inserire dei muri invisibili per limitare il movimento del giocatore, giustificandoli con delle scritte che segnalano che quello non è il percorso che va intrapreso per portare a termine gli obiettivi che i nostri padroni ci hanno affidato, anche se a volte le condizioni sono fin troppo restrittive (davvero non possiamo attraversare la strada se non siamo esattamente sopra le strisce pedonali? Mi pare un po’ troppo anche per un androide). Dall’altra parte però, dopo che gli androidi si riscoprono devianti, il gioco fa cadere alcune barriere ed alcune limitazioni che ci erano imposte precedentemente, ma per delimitare le aree in cui poter agire vengono mantenuti alcuni muri invisibili che a questo punto della narrazione diventano incoerenti con l’evoluzione dei personaggi. Magari durante una particolare sequenza siamo coscienti del fatto che dobbiamo avere successo nella nostra impresa e dobbiamo agire prima che la polizia arrivi sul posto, ma se un deviante si ritrova a non poter accedere ad un vicolo perché il programma ci avverte che non c’è tempo e dobbiamo concentrarci sulla missione, allora significa che l’androide è ancora soggiogato dalla sua programmazione originale e non può definirsi un’essere vivente libero con una coscienza propria. Mi rendo conto che Quantic Dream e Cage, in quanto registi dell’intera opera, hanno il dovere di tenere la vicenda sui binari narrativi da loro definiti, ma dare l’idea di aver dato all’androide (ed al giocatore) la possibilità di realizzare la loro volontà senza che un software faccia in modo di limitarla per poi distruggere questa sensazione inserendo delle limitazioni è comunque una soluzione un po’ facilona che fa sentire il peso del solco tracciato dal team di sviluppo, un solco che per quanto ramificato rimane netto, inviolabile ed in antitesi con la voglia del giocatore di prendere il controllo della situazione.
Non appena avvieremo il gioco saremo accolti dal volto della bellissima androide Chloe che occuperà gran parte dello schermo nel menu principale e già da questo primo impatto potremo capire l’impegno messo da Quantic Dream nella realizzazione tecnica del prodotto: la prima cosa che colpisce del gioco è la resa che c’è dietro al volto dei personaggi, ben più avanzata di quello che abbiamo visto nella tech demo di Kara, che colpisce non solo per la prova attoriale di chi ha prestato le proprie fattezze, ma anche per l’alto livello di realismo nella realizzazione in-game dei volti, paragonabile forse solo con con Senua di Hellblade (dove però era presente solo un personaggio): tale lavoro non è fine a sé stesso ma è strettamente legato a ciò che abbiamo detto prima riguardo alle emozioni: i volti trasmettono perfettamente ciò che il personaggio (sia esso uno dei protagonisti od un comprimario) sta provando, il pathos si genera anche solo attraverso uno sguardo, senza che nessuno dei personaggi proferisca alcuna parola ed è emblematico il fatto che in determinati dialoghi ci venga concessa la possibilità di non rispondere, ma nonostante questo riusciamo a leggere negli occhi dei personaggi le loro emozioni ed i loro sentimenti. Chiaramente visto il vasto numero di personaggi messi in campo questo discorso non vale per tutti: primari e comprimari sono generalmente molto ben fatti (a parte barba e capelli di Hank, che non si capisce come possano apparire così fuori luogo data anche la grande presenza del personaggio nel corso dell’avventura), i secondari invece spaziano fra volti molto ben curati (penso soprattutto alla scena dell’interrogatori del primo androide arrestato da Connor) ed altri di minore importanza che sono stati messi in secondo piano senza però che questo sia necessariamente un problema. Nel complesso la resa visiva è sublime, non solo per l’elevato dettagli grafico che fa impressione per essere una console (ed impressiona ancora di più su PlayStation 4 Pro), ma anche per le scelte artistiche, per il design di scenari ed edifici, per lo scontro fra elementi di modernità rappresentati dai palazzi delle zone più ricche di Detroit e le cadenti case in legno delle periferie, per l’uso sapiente della luce nelle scene notturne, per l’ottima regia in diversi frangenti che posiziona la telecamera in modo da mettere in rislato tutti i personaggi e gli elementi che compongono la scena. La colonna sonora regge magnificamente tutte le scene del gioco, dalle più dolci a quelle dove la tensione è palpabile: si passa da pezzi orchestrati che in più frangenti mi hanno ricordato una soundtrack di un film hollywoodiano e che aumentano di ritmo con l’avvicinarsi del momento clou della scena, a brani elettronici accattivanti realizzati con un sintetizzatore moog, passando per alcuni brani composti al piano che accompagnano scene meno rimate. Interessante come negli extra del gioco sia possibile sbloccare non solo diversi temi musicali presenti nel gioco ma come questi siano accompagnati da una descrizione del loro autore che ne racconti il processo creativo. Come tutte le grosse produzioni Sony, il gioco presenta sia il doppiaggio italiano che quello inglese (selezionabile direttamente dal menu di gioco senza dover cambiare la lingua della console): la mia partita l’ho affrontata ascoltando le voci in lingua italiana e se nel complesso il lavoro effettuato in sala di doppiaggio si rivela ottimo, qualche dialogo recitato non benissimo rischia di suonare come fuori dal coro quando inserito in un contesto di alto livello.
PRO
- Uno dei migliori motion capture mai visto in un videogioco
- Interessanti novità di gameplay rispetto a Heavy Rain e Beyond: Two Souls
- La struttura a bivi è stata ben studiata e favorisce la rigiocabilità
- La narrazione è in grado di suscitare grandi emozioni…
CONTRO
- … ma la trama soffre di cliché del genere e le tematiche sono poco approfondite
- Ogni tanto il game design cozza con la caratterizzazione dei personaggi
- Quegli elementi tecnici fuori posto stonano incredibilmente nel contesto molto curato del resto del gioco
Testato su: PlayStation 4 Pro
Voto: 8