37 anni dopo, siamo ancora qui, con la bava alla bocca, in attesa di un nuovo capitolo della saga di The Legend of Zelda. E in questa pletora di appassionati mi ci metto in mezzo anche io, che di anni fortunatamente ne ho meno (ma non troppi, e gli acciacchi iniziano a farsi sentire) ma che, da quando ho scoperto la serie di Zelda all’inizio degli anni 2000, ne sono rimasto rapito. Non è difficile capire il perché, se siete fan di questa immortale saga. Ma non per tutti questa cosa è scontata.
L’ho vissuto in prima persona, proprio poche settimane fa. Mentre cercavo di tenere in vita i miei studenti nel corso di una gita scolastica in Belgio, uno di loro ha iniziato a parlare con me del gameplay trailer di Tears of the Kingdom pubblicato proprio in quei giorni, di cui abbiamo discusso brevemente prima di essere interrotti dalla fatidica affermazione di un suo coetaneo tredicenne che recitava “Ma dai, sembra un gioco da bambini, guarda la grafica, è orribile”. Dopo essere stato trattenuto a forza da alunni e colleghi, e notando l’evidente stato confusionale nel quale si trovava il giovane, ho deciso di sedermi da parte a lui e spiegargli per quale motivo ancora oggi, dopo 37 anni dal suo debutto originario, ci sia ancora bisogno di Zelda.
Perché è verissimo che la nuova opera di Nintendo non brillerà per lo stesso splendore visivo di un Horizon: Forbidden West, banalmente per l’hardware sul quale si ritrova costretto a girare, ma è altresì vero che Zelda – e la speranza è che anche Tears of the Kingdom non verrà meno a questi principi – è una serie da sempre in grado di sorprendere, sovvertire ed entusiasmare, con una visione sul futuro che in pochi, in questo mezzo secolo circa da quando i videogiochi esistono, hanno saputo realizzare.
Le origini di una saga leggendaria
Non è un caso che anche la leggendaria saga di Zelda, dopotutto, sia frutto di quella folle mente di Shigeru Miyamoto, padre di tutti i videogiochi. Che proprio attraverso Zelda, in più occasioni, ha scritto quelle che sarebbero state le regole di buona parte delle produzioni che ancora oggi giochiamo.
Eh già perché sin da quel The Legend of Zelda del 1986, primo di una lunga stirpe di simboli universali di videogioco nel mondo, si notavano le avvisaglie di qualcosa che avrebbe scosso e innovato un mercato che stava muovendo i suoi primi decisivi passi. Stabilì un nuovo standard, prendendo il concetto di esplorazione, già sdoganato nei videogiochi da Colossal Cave Adventure nel 1976 e Adventure tre anni più tardi, anche se con forme ovviamente differenti, portandolo però su un altro livello. Dall’avventura di Link, apparentemente semplice e in realtà desiderosa di mille attenzioni, Nintendo stabilì le prime regole e concetti del magico mondo di Hyrule, della Triforza e molto altro ancora.
Da lì in poi, la serie non sbagliò quasi mai, senza intelligentemente restare troppo ancorata al suo passato. Vero, era un mondo diverso da quello di oggi, era un’epoca in cui realizzare un videogioco da zero era molto più semplice – o meglio, veloce. E infatti anche già con The Legend of Zelda II, due anni più tardi, iniziò un importantissimo cammino di maturazione per una serie che voleva andare oltre l’esplorazione e sorprendere sempre di più il giocatore.
Il vero punto di svolta, a detta di molti, arriva nel 1992 con quel capolavoro che ancora oggi è The Legend of Zelda: A Link to the Past, per SNES. Non solo un ritorno allo stile originale, senza però fare a meno di nuove meccaniche, ma una vera e propria pietra miliare, un prodotto d’avanguardia, un titolo che fondeva clamorosamente esplorazione e risoluzione d’enigmi quasi come se fossero un tutt’uno. Non solo: il titolo settava con prepotenza le basi di quelli che poi sarebbero stati tutti i GDR da lì in avanti (insieme ovviamente ad altre grandi opere già in circolazione), introduceva l’idea di un mondo vastissimo ma interconnesso nello stile e nelle ambientazioni (cosa che Miyamoto aveva già iniziato a fare con Super Mario Bros. 3), e stupiva nel suo concept che presentava non una ma ben due realtà parallele da visitare, il Light World e il Dark World, ognuna con la sua storia, personaggi, oggetti e quant’altro.
Sebbene fosse visionario, non è facile per un giocatore di oggi approcciarsi ad A Link to the Past, proprio per il suo particolarissimo status. Si trattava di un titolo che osava talmente tanto, per gli anni ’90, che neppure oggi si incontrano spesso produzioni di tale profondità, e capace di smarrire i meno attenti. Ma a Miyamoto questo non bastava, perché appena dopo la pubblicazione di A Link to the Past, era già tempo di pensare al passaggio successivo, alla tecnologia che avrebbe rappresentato il più grande balzo nella storia dei videogiochi fino a quel momento: il 3D.
Ocarina of Time – Il balzo della terza dimensione
Vero, l’epopea di Link nelle due dimensioni non è mai realmente conclusa (basta citare Link’s Awakening, splendidamente rivisitato da Nintendo con un remake pubblicato su Switch nel 2019), ma da quando la serie principale ha scoperto la terza dimensione tutto è cambiato. E il primo prodotto di questo cambiamento epocale, Ocarina of Time, è ancora oggi poesia pura. Una magia unica. L’apice di un franchise che, incredibilmente, riuscirà ancora una volta a superarsi in futuro.
Parlare di Ocarina of Time nel suo insieme è impossibile, in questa sede. Per discutere realmente di tutto ciò che OoT rappresenta, sarebbe necessario un intero speciale con video, interviste e rubriche dedicate. Basta invece ricordare, per capire la sua importanza, che il titolo pubblicato nel 1998 su Nintendo 64 era l’incarnazione stessa del senso dell’avventura, mettendo i giocatori nei panni di Link che per la prima volta pareva davvero toccare ogni singolo oggetto incontrasse sul suo cammino. L’introduzione del targeting, la precisione della telecamera (sistemata dopo Mario 64, per fortuna), il combattimento stesso era un miracolo da vedere e da giocare. In Ocarina of Time funzionava tutto, anche perché Nintendo si fece carico, annusando il sentore di come i videogiochi si stessero evolvendo, di diventare un pionere nel racconto di grandi e magnifiche storie elaborate e ricche di tensione, e quale miglior occasione per farlo se non questa?
Ma Ocarina of Time non fu certo il canto del cigno per una serie che sembrava fosse arrivata al suo limite. No, tutt’altro.
Dopo Majora’s Mask, altro titolo ancora oggi idolatrato, Miyamoto continuò a sovvertire le regole e stupire i giocatori, anche arrivando a scelte estreme. Wind Waker tentò una strada tutta nuova aprendosi all’esplorazione sempre più ampia diventando un cult, questo prima di Twilight Princess e Skyward Sword, straordinarie produzioni per Wii che rilanciavano le avventure di Link. Per non parlare poi di tutti i titoli per le console portatili, la cui lista è lunghissima. Per concludere in bellezza questa carrellata di ricordi, non serve far altro che arrivare al “presente” di Switch, quando Zelda, ancora una volta, fece cascare a terra le mascelle dei giocatori.
Breath of the Wild – Il capolavoro che riscrive gli open world
Sembrava che la sfigatissima parentesi di WiiU avrebbe azzoppato non solo Zelda, ma l’intera Nintendo. La console proprio non aveva attecchito, i giochi c’erano ma il pubblico sembrava non interessato – o non aver capito il prodotto, che in effetti era stato illustrato nel peggiore dei modi prima che Microsoft nel 2013 scrivesse un preciso trattato su come non va presentata una console. Comunque, tutto sembrava perduto, e invece il 2017 fu l’anno decisivo. Sei anni, sono passati ben sei anni e ancora oggi Breath of the Wild non sembra essere invecchiato di un giorno.
Il genere degli open world era ormai stantio da troppo tempo, e in questa generazione ci hanno pensato soprattutto tre opere a farlo finalmente evolvere verso qualcosa di più: Red Dead Redemption 2, Elden Ring, e appunto The Legend of Zelda: Breath of the Wild. L’open world che non voleva essere un open world, eppure lo era, L’open world che non diceva ai giocatori cosa fare, bensì erano loro stessi a scegliere la propria destinazione, grazie anche a una sapiente narrazione che non mette alcun paletto ma lascia invece la libertà totale. BotW riscriveva tutte le regole di questo macrogenere, riuscendo ad applicarlo con dovizia e precisione ai concetti cardine della saga.
Del resto, l’idea era finalmente quella che serviva per rinvigorire il tutto. Perché dire al giocatore cosa fare, quando si può invece spingerlo, se non addirittura obbligarlo, a spremere ogni elemento, a visitare ogni singolo angolo di una Hyrule maestosa? L’esplorazione stessa diventa una delle dinamiche di gioco, un punto cardine di Breath of the Wild, quando fino a quel momento, negli open world, era sempre stata un semplice elemento dello sfondo per sbalordire i giocatori in ambientazioni sempre più massicce al grido di “guardate quanto ce l’ho grosso (il mondo di gioco)!”. Un modo di pensare l’open world che ancora oggi, da tante aziende, non è stato superato. Eppure Breath of the Wild lo aveva già capito sei anni fa. La solita, incredibile filosofia di Nintendo.
E con Tears of the Kingdom, incredibilmente, le cose potrebbero cambiare ancora. Sì, ancora. Perché da quel poco che abbiamo visto (o meglio, che ho voluto vedere, per non perdermi neppure una sorpresa di ciò che ci aspetta), Nintendo sembra aver ribaltato ancora una volta la situazione peggio di Alessandro Borghese quando scopre che un ristoratore fa la carbonara con la panna.
La componente esplorativa avrà nuovamente un ruolo cruciale, ma stavolta sarà Link, e quindi noi, a decidere come affrontarla, o come piegarla alla nostra volontà. Le cose da fare saranno tante, quelle da vedere anche di più, e nessuna strada già tracciata ci imporrà di seguirla per vivere questa nuova, immensa avventura. Ma in effetti dove andiamo noi, con Tears of the Kingdom, non abbiamo bisogno di strade…