Nel mondo incantato del teatro, dove le storie prendono vita tra quinte di cartone e luci soffuse, si tessono favole malinconiche e poetiche. È proprio in questa ambientazione che il team statunitense dei Flatter Than Earth ha deciso di ambientare Once Upon a Puppet, la loro opera di esordio, che si muove tra platform, puzzle ed emozione narrativa. È un gioco che, pur con i suoi inciampi tecnici, riesce a lasciare il segno grazie a un’estetica fortemente caratterizzata e un cuore pulsante nascosto tra sipari sdruciti e marionette dimenticate.
L’analisi, in dettaglio, nella nostra recensione.
Sotto il palcoscenico
La premessa narrativa del gioco è tanto bizzarra quanto affascinante. In un regno teatrale sospeso tra sogno e ricordo, un re disperato per la scomparsa del proprio figlio, il principe, cerca ossessivamente di riscrivere la storia con una pièce perfetta. Ma per farlo, deve liberarsi di tutto ciò che è incompleto, imperfetto, non finito: personaggi, scenografie, trame e persino emozioni vengono gettati nel Sottopalco, un mondo sotterraneo e oscuro dove finiscono i rifiuti del palcoscenico.
È qui che incontriamo i due protagonisti: Nieve, una burattinaia reale ridotta ad un piccolo guanto esiliato nel Sottopalco, e Drev, una marionetta di legno un tempo destinata a calcare le scene per intrattenere il re. Entrambi abbandonati e dimenticati, si incontrano per caso nei bassifondi del teatro, contendendosi un misterioso rocchetto brillante, simbolo del legame con il passato e dell’arte stessa. La disputa viene bruscamente interrotta dall’arrivo dei Monstritus, creature composte dagli scarti emotivi del regno, e proprio mentre Nieve e Drev si uniscono per difendersi, il rocchetto si attiva magicamente e li lega l’uno all’altro con un filo incantato.
Questo legame, impossibile da spezzare con la semplice forza, diventa il fulcro del gameplay, ma anche della narrazione. I due dovranno imparare a collaborare, superare prove, riscoprire verità nascoste e affrontare i fantasmi del passato per cercare un modo per separarsi e, forse, per guarire. Questa, a grandi linee, è la trama di Once Upon a Puppet, non certo originalissima ma comunque piacevole.
Una favola in nove atti
La storia si dipana lungo nove capitoli, ciascuno con le sue ambientazioni, sfide e frammenti narrativi. Il ritmo dell’avventura è ben calibrato: ogni capitolo introduce nuove meccaniche o variazioni di gameplay che mantengono alta l’attenzione, come puzzle ambientali, fughe dai Monstritus o sezioni di ricostruzione di scenari teatrali. Questi ultimi sono particolarmente evocativi: per avanzare nella storia, Nieve e Drev devono “rappresentare” eventi del passato del re, ricostruendo con elementi scenografici smarriti episodi chiave della sua vita.
I protagonisti incontrano anche un’oracolo enigmatica, che li guida nella comprensione del dolore del re, suggerendo anche che prima di sciogliere il legame tra i protagonisti, bisogna sciogliere quello, molto più profondo, tra il sovrano e la perdita del figlio. Così, il gioco diventa un percorso di elaborazione del lutto, del perdono e della memoria.
A rendere l’esperienza ancora più coinvolgente ci sono i collezionabili: otto vetrate da ricomporre, ciascuna nascosta in uno dei capitoli e composta da frammenti ben celati; accessori e costumi che arricchiscono il lore e permettono di personalizzare i protagonisti. Al termine del gioco, che dura circa 8 ore, è possibile rigiocare i capitoli per recuperare gli oggetti mancati.
Salti nel buio
Once Upon a Puppet è un platform narrativo in 2,5D che mescola esplorazione, puzzle ambientali e sezioni più dinamiche, come inseguimenti o fasi in cui si devono evitare nemici. I giocatori controllano Nieve e Drev in maniera cooperativa (non necessariamente in co-op: il gioco è pensato anche per il giocatore singolo), sfruttando le abilità di entrambi e, soprattutto, il filo magico che li unisce.
Questo filo non è solo un espediente narrativo, ma un vero strumento di gameplay. Col tempo, i protagonisti acquisiranno nuove abilità grazie alla combinazione del rocchetto magico con altre trovate nel mondo di gioco: potranno usarlo come fionda per lanciarsi a distanza, planare per brevi tratti, agganciarsi a elementi dello scenario o addirittura usarla come arco con frecce luminose.
Il level design, però, è un punto controverso. Se da un lato alcuni scenari sono esteticamente curati e suggeriscono visivamente la strada da seguire, in altri casi la disposizione degli elementi è poco intuitiva, e ci si ritrova a vagare senza meta o, peggio, a finire in vicoli ciechi. Capita anche di rimanere intrappolati in puzzle non più risolvibili, costringendo il giocatore a ricaricare l’ultimo salvataggio. Non sono errori catastrofici, ma macchiano l’esperienza con un senso di frustrazione evitabile.
A questo si aggiunge un sistema di controllo molto legnoso che può rendere difficile valutare distanze e collisioni, specialmente in sezioni dove si richiede una certa precisione. In particolare, la gestione della telecamera è altalenante: se in molte sezioni accompagna bene l’azione, in altre può ostacolare la visuale, portando a cadute accidentali o errori di salto. Sul fronte della precisione, insomma, c’è poco di cui essere davvero soddisfatti.
La bellezza della scena
Se c’è un aspetto su cui Once Upon a Puppet brilla senza riserve, è l’estetica. L’intero universo di gioco è costruito come un palcoscenico in miniatura: fondali di cartone dipinto, corde visibili che muovono gli oggetti, sipari che si aprono e chiudono per segnare l’inizio o la fine delle scene. I “Junk Monsters”, o Monstritus, sono creature originalissime, assemblate con oggetti scartati, che incarnano alla perfezione il tema dell’abbandono creativo.
Il design visivo riesce a evocare una malinconia tangibile, simile a quella di un teatro dismesso dove ancora echeggiano le battute dimenticate. Le animazioni sono fluide, e l’uso della luce — in particolare in alcune sezioni in cui bisogna far luce su nemici o oscurità materiali e simboliche — è davvero efficace sia sul piano visivo che tematico.
La colonna sonora, discreta ma ben dosata, accompagna con dolcezza e un pizzico di tristezza il viaggio dei protagonisti. Si tratta spesso di brani per strumenti a corda, o di passaggi quasi silenziosi, dove il cigolio delle assi e il fruscio della stoffa fanno da veri narratori.
Uno spettacolo abbastanza riuscito
Once Upon a Puppet è un titolo di esordio interessante, ma imperfetto, un’esperienza che commuove più per ciò che racconta e mostra che per come si gioca. È una favola moderna, un racconto teatrale che usa il linguaggio del videogioco per parlare di abbandono, memoria e legami da ricucire. I problemi tecnici e di gameplay non si possono ignorare, ma vengono compensati, almeno in parte, da un mondo visivo straordinario e da una narrazione che riesce a toccare corde profonde.
Non è un titolo per tutti: chi cerca una sfida tecnica o di precisione da platform puro potrebbe rimanere deluso. Ma a chi sa apprezzare le atmosfere rarefatte, la narrazione simbolica e le avventure dal cuore artigianale, Once Upon a Puppet saprà regalare emozioni sincere. E forse, alla fine, lascerà anche un piccolo filo invisibile che lega per sempre al suo palcoscenico dimenticato.
Once Upon a Puppet è un gioco interessante sotto il profilo dell'interazione, del concept e soprattutto dell'estetica, che gli fa guadagnare parecchi punti. Sul fronte ludico, invece, ci sarà da lavorare per gli sviluppatori, qui all'esordio: è un buon platform, ma fortemente migliorabile. Anche il livello di difficoltà è sbilanciato, soprattutto per ragioni tecniche.
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Voto Game-eXperience