Se siete appassionati di giochi appartenenti al genere delle avventure grafiche, tipologia che spopolò durante gli anni novanta grazie a titoli come Myst, Monkey Island, Gabriel Knight e Sam & Max. Fra i nomi dei titoli che contribuirono al successo delle avventure grafiche nella loro età dell’oro c’è sicuramente quello di Revolution Software, lo studio inglese che realizzò titoli del calibro di Beneath a Steel Sky, Lure of the Temptress, ma soprattutto per la saga per la quale ancora oggi è ricordata ovvero Broken Sword. In occasione del 30° anniversario dall’uscita del primo storico capitolo della saga, Revolutions Software ha realizzato una nuova edizione di Broken Sword denominata Reforged, pensata per proporre il gioco su architettura moderna andando ad aumentare sensibilmente la risoluzione del gioco e qualche correzione che il gioco originale necessitava. Al Lucca Comics & Games abbiamo incontrato Charles Cecil, co-fondatore di Revolution Software e director di Broken Sword con il quale abbiamo avuto modo di parlare della nuova versione del gioco, dei progetti futuri e della sua passione per l’ordine dei templari.
Vorremmo conoscere quali sono gli elementi essenziali per realizzare un buon gioco – nello specifico una buona avventura grafica – e qual è il processo creativo che voi di Revolution Software mettete in atto per raggiungere questo obiettivo.
Domanda interessante. La maggior parte delle persone gioca ai giochi di avventura per la storia e dirà che i puzzle sono secondari. Ora, io direi che ovviamente ciò che pensano di volere e ciò che effettivamente vogliono non sono necessariamente la stessa cosa, perché in un simulatore di camminata non ci sono puzzle. Personalmente, mi annoio molto nei walking simulator, perché tanto vale guardare un cartone animato o YouTube. Credo che gli enigmi siano davvero importanti, ma per i giochi che scriviamo cerco di fare in modo che i puzzle siano integrati nella storia in modo che riflettano la motivazione del personaggio in quel momento. In altre parole, in modo che non sembrino puzzle: il più grande complimento che mi si possa fare è quando mi dicono che quando giocano non li percepiscono come enigmi.
Sembrano sfide narrative interessanti, come in un film: in un film, il protagonista viene messo sotto pressione e deve fare scelte difficili, mettersi in pericolo per raggiungere il suo obiettivo. Per molti versi, un gioco d’avventura è esattamente la stessa cosa, in quanto si vuole che il giocatore sappia qual è il suo obiettivo, ma non come raggiungerlo.
E i nostri concorrenti dei primi tempi come LucasArts, sono stati assolutamente fantastici, i Monkey Island sono grandi giochi, ma la cosa sulla quale avrei da ridire di LucasArts (e io ho amato i giochi di LucasArt) è che gli enigmi in genere non hanno senso e in realtà non potete ricordare che per aprire una pompa d’acqua dovete svitare un dado e per farlo dovete prendere una scimmia, metterla in tasca e trasformarla in una chiave inglese (ndr: qui Cecil si sta riferendo al gioco di parole fra monkey, ovvero scimmia e monkey wretch che è un modo di chiamare la chiave inglese). In realtà in inglese non si usa il termine monkey wrench, ma il termine adjustable spanner e Dio solo sa cosa è successo quando è stato scritto in italiano.
Ne stavamo giusto parlando qualche giorno fa con alcuni amici: una di questi mi ha detto di aver letto un’intervista a Ron Gilbert (ndr: uno dei creatori di Monkey Island) nella quale afferma di essersi ripromesso di non voler creare più puzzle basati su giochi di parole specifici di una lingua nei suoi giochi perché aveva compreso che sarebbe potuto esserci un problema con l’adattamento.
A prescindere da ciò, l’idea di catturare una scimmia mettendo una banana su un metronomo va bene. Si potrebbe capire se si sapesse di dover catturare la scimmia, ma non si potrebbe mai sapere che se si prende una scimmia e la si mette in tasca, questa diventa una chiave inglese. Il punto è che quando giocavamo ai giochi di LucassArts, 20 anni fa, provavi tutte le combinazioni fino a quando non trovavi la soluzione e allora era davvero divertente perché c’era una gag e c’era un’immagine ridicola.
Fin dall’inizio noi invece volevamo che i nostri enigmi fossero logici nel contesto del mondo, nel contesto della motivazione del personaggio in quel particolare momento. Quindi giocando scopri com’è il mondo, cosa vogliono i personaggi e li aiuti a raggiungere il loro scopo. Quando scrivo i giochi, quello che faccio è scrivere una breve sinossi della storia, poi inizio un documento di progettazione e guardo alle opportunità per la realizzazione di un buon gameplay, che poi ovviamente si riallaccia alla storia: questi due documenti si espandono e si alimentano a vicenda.
Quindi, tutto ciò che è bello dal punto di vista narrativo diventa gameplay, ma, cosa altrettanto importante, tutto ciò che è un grande rompicapo in cui tutto si incastra si ripercuote sulla storia. E credo che la cosa fondamentale, e forse altri lo fanno, non lo so, ma è tenere separati questi due elementi. Perché il punto della narrazione interattiva è che è tutto ciò che è presente anche nella narrazione lineare, ma ha un grado in più, una dimensione in più, che la rende molto più complicato, a mio avviso.
Direi che è più complicato che scrivere un film. Le sceneggiature di un film sono scritte esattamente nello stesso formato, con lo stesso carattere, e leggendola si sa che ogni pagina è circa un minuto di film e e si dovrebbe essere in grado immaginare più o meno come sarà. È impossibile scrivere la sceneggiatura di un videogioco in modo che la gente possa capire cosa sta per accadere, l’unico modo per farlo è quello di avere effettivamente una visione verticale sul progetto. Ho bisogno di tenere molte cose in testa: la storia e il design del gioco sono due cose si alimentano a vicenda, si espandono ed io ne mantengo la visione generale nella testa.
Hai detto che non ti spieghi il successo dei walking simulator e questo ci ha fatto pensare al caso opposto: il Professor Layton è una serie di successo dove la storia ed il gameplay non si combinano più di tanto e ci sono momenti specifici nei quali devi risolvere enigmi perché il gioco te lo richiede, ma la risoluzione dell’enigma non ha alcuna influenza sulla storia, tranne per il fatto che è richiesta dal gioco per poter procedere.
Ma ci sono sfumature. Facciamo un esempio: The 7th Guest. Sei nel mondo di un fabbricante di giocattoli e lui ti pone dei rompicapi e tu devi risolverli e la storia progredisce, quindi in un certo senso è una scelta logica. Lo stesso vale per il professor Leon, ovviamente i rompicapi sono molto astratti, ma sono abbastanza legati alla storia da funzionare. Direi che uno dei grandi capolavori degli ultimi anni è What Remains of Edith Finch. Sono ancora tormentato dal momento del gioco in cui dovevi sminuzzare e gli enigmi erano molto semplici, ma erano abbastanza difficili da creare una sfida che ti premiasse facendoti proseguire nella narrazione nella narrazione.
Come ho detto, i giochi privi di enigmi personalmente non mi piacciono: il mio parere è irrilevante, ma personalmente non è qualcosa che voglio fare quando sviluppo un gioco.
Da dove viene il tuo interesse per i templari e le cospirazioni?
Forse deriva da quando ero molto giovane e quando mia madre è cresciuta nello Zimbabwe, che allora era la Rhodesia, ovviamente. Lei si è trasferita a Londra dove io sono nato e quando avevo un anno ci siamo trasferiti nel Congo Belga: il modo in cui i congolesi erano stati trattati dai padroni coloniali, che erano i belgi, era assolutamente terribile.
Noi eravamo a mille miglia su per il fiume Congo, nel cuore delle tenebre, e nella città appena oltre il fiume la CIA aveva assassinato il presidente (ndr: Patrice Lumumba, 1925-1961) perché pensavano che si sarebbe alleato all’Unione Sovietica. A causa di questo fatto è esplosa questa furia fra i congolesi che hanno messo in fila tutti i bianchi e li hanno fucilati morte e in molti modi si può capire perfettamente perché avessero questa rabbia intensa. Così ce ne siamo andati in aereo e siamo andati a vivere in Iran per un po’ e poi in Nigeria, e questo senso di saltare sempre da una zona calda all’altra credo abbia sviluppato in me un amore per la storia e il senso del dramma. Per quanto riguarda l’interesse per i Cavalieri Templari, invece, è stato ispirato da un libro intitolato Il pendolo di Foucault di Umberto Eco. E quello che dice Umberto Eco è “Quando uno tira in ballo i Templari è quasi sempre un matto”, quindi, temo di rientrare nella sua definizione di “matto! e a quel tempo, intorno al 1994, pochissime persone avevano sentito parlare dei Cavalieri Templari.
Mentre facevo ricerche sulla storia, diventava sempre più affascinante: c’era un libro che era stato scritto da alcuni inglesi, tre inglesi, intitolato The Holy Blood and The Holy Grail (ndr: di Michael Baigent, Richard Leigh e Henry Lincolnin, Italia fu pubblicato con il titolo di “Il Santo Graal”) che è stato usato da Dan Brown come base per Il Codice Da Vinci. In realtà gli autori hanno fatto causa a Dan Brown perché ha preso tutto da quel libro. E devo dire che forse per questo ci sono tante somiglianze fra Il Codice Da Vinci e Broken Sword, ma Broken Sword è uscito sei o sette anni prima.
A cura di Francesco Enriu