L’esperienza di gioco dei single player è per definizione qualcosa di intimo, una parte fondamentale della memoria di tutti i giocatori. Tuttavia, tra gli innumerevoli meriti che possiamo attribuire al videogioco sia come medium che come mezzo di comunicazione vi è sicuramente la condivisione. Complice la pandemia, la digitalizzazione di un mondo ormai privo di qualsiasi limitazione o magari il successo milionario di titoli esclusivamente online, l’esperienza da single player tende ad essere sminuita dalla massa. Sbagliato? Certo, ma non vogliamo parlare di questo. Il contraccolpo da parte degli estimatori del single player è altrettanto viscerale e l’impatto di questa guerra senza confini è visibile ad occhio nudo, basta guardarsi un po’ indietro.
Condividere le proprie emozioni, le vittorie e le sconfitte, creando un legame che dallo schermo viene trasmesso ai giocatori ha da sempre dato quella marcia in più al videogioco, soprattutto nel corso della nostra infanzia. Ricordo ancora la voglia di andare avanti su Jak and Daxter, in attesa che il mio migliore amico suonasse alla porta per giocare insieme, un solo pad ed una passione sconfinata a farci compagnia.
A pensarci bene, la necessità di condividere la propria esperienza e le proprie emozioni, ha dato il via a quell’immenso mondo fatto di content creators che, pur essendo amati ed odiati, hanno saputo intrattenere milioni di persone.
Attenzione, questo non vuole essere il classico discorso da giocatore di altri tempi o da “ si stava meglio quando si stava peggio “, io sto meglio adesso, ad un click di distanza dal poter streammare un videogioco ad un mio amico che si trova dall’altra parte dell’Italia. La riflessione, di più ampio respiro, vuole concentrarsi sulla visceralità del single player, sulla protezione in maniera fin troppo intima di un’esperienza che storicamente dal il meglio di sé una volta condivisa. Il rifiuto collettivo di contaminazioni cooperative o di elementi multiplayer su opere storicamente pensate per il giocatore singolo è qualcosa di tangibile, dalle richieste di giocare It Takes Two in single player all’ilarità suscitata da un possibile comparto cooperativo in un ipotetico Days Gone 2.
Le preferenze dei giocatori, per motivi economici ( che alla fine sono gli stessi che muovono l’intera industria ) sono l’ago della bilancia e decidono, non sempre troppo consapevolmente la direzione in cui si muoverà l’industria negli anni a venire. In questo modo abbiamo assistito alla scomparsa delle modalità a schermo condiviso o del System Link, cedendo ad una più invitante Photo Mode capace di farci sembrare belli con l’ultimo boss di Sekiro stecchito dopo lacrime e dolore. Il risultato di un pubblico in costante contrasto ha prodotto una divisione su due fronti che, pensate un po’, penalizza soltanto i giocatori.
Trasformando le definizioni di Single Player e Multiplayer in due veri e propri generi, dimenticando che si tratta di funzionalità. Single player e multiplayer possono coesistere, possono mischiarsi per creare qualcosa di nuovo, come il multiplayer asincrono di Death Stranding.
Difendere l’esperienza da single player dall’incedere dei titoli multigiocatore è giusto ed ammirevole, ma blindare la propria esperienza non farà altro che rovinare uno degli aspetti più belli di questo medium. Il modo migliore per portare alta la bandiera dei single player è sempre quello di acquistarli e supportarli al pari dei titoli multigiocatore. Non esiste un appassionato a comparti stagni, il videogioco è capace di offrire esperienze incredibili a prescindere dal numero di giocatori a schermo.
La teoria secondo la quale in single player nessuno può sentirti urlare nasce invece dalla contaminazione di un mondo votato al perfezionismo, dal ‘’git gud” e dai commenti acidi da poter fare sui social, nascondendo i dolori di un viaggio non sempre fatto di panorami mozzafiato e di boss particolarmente difficili, si tratta di un viaggio fatto di ore passate a girovagare senza meta per risolvere un enigma non poi così difficile, si tratta di abbassare la difficoltà quando nessuno guarda senza per questo doversi vergognare, si tratta di non voler giocare l’ultimo souls-like perché non si è in vena di impegnarsi troppo. Giocare senza nessuno che ci guarda e che condivide l’esperienza con noi tiene in piedi questa illusione, bisognerebbe però chiedersi se il giocatore ha davvero bisogno di essere illuso per potersi godere un videogioco e se poter mettere un’altra spunta sulla lista dei giochi finiti è davvero il miglior modo di giocare, ma queste possono essere considerate mere speculazioni da parte di uno che da qui a Biomutant non ha nulla da giocare.
Scrivo tutto questo perché, nel momento in cui l’industria se ne frega di tutte queste fantasie, noi ci becchiamo capolavori come It Takes Two. Quando il videogioco si impone sui giocatori, nel momento in cui le statistiche ed i report sulle preferenze vengono messi da parte e ci si concentra sull’esperienza di gioco, il capolavoro è dietro l’angolo.
In conclusione, questa non vuole assolutamente essere una predica quanto uno spunto di riflessione nella misura in cui ogni giocatore resta libero di approcciarsi a questo mondo come meglio crede, l’unico consiglio che voglio darvi è quello di non privarvi mai di nulla, di provare tutto quello che riuscite a provare, potreste restarne sorpresi in più di un’occasione.