Devi avere qualche anno alle spalle per sentire un brivido di piacere quando leggi la notizia del ritorno nei videogiochi di Lucasfilm Games che fu fondata quando avevo un anno, nel 1982 e che grazie al fatto di non potersi occupare di giochi di Guerre Stellari (come chiamavamo Star Wars negli anni ’80) sfornò una serie di titoli rimasti nella storia. O almeno, nella storia dei giocatori più stagionati e di chi ha voglia di guardarsi un po’ indietro, ci sta che un ventenne di oggi non abbia idea di cosa sia Maniac Mansion o non senta la pelle d’oca ascoltando il tema di Monkey Island, va benissimo così, non fatemi fare il boomer.
Il ritorno di Lucasfilm Games porta in dote con sé due annunci bomba che hanno tenuto banco nelle speculazioni di questi ultimi giorni: un nuovo gioco open world di Ubisoft su Star Wars, che vedremo probabilmente fra un paio di anni, quando l’accordo di Electronic Arts sulla saga non sarà più esclusivo, e un titolo dedicato a Indiana Jones sotto marchio Bethesda, che punta senza troppi giri di parole a diventare l’Uncharted di chi non ha una PlayStation (poi magari saremo tutti smentiti dall’arrivo di un’avventura grafica old style, chissà).
Due annunci che da una parte son da leccarsi i baffi, almeno come prima reazione, dall’altra però rappresentano senza dubbio l’ennesimo ripiegamento su sé stesso di una industria, che, allargando l’orizzonte, si ripiega sempre più su sé stessa, come i mille strati di una katana. Non fraintendiamoci: sono senza dubbio molto interessato a entrambi questi titoli e a tutti quelli che verranno, anche perché un gioco buono in un universo che ami diventa immediatamente un gioco fantastico, ma questo ennesimo posizionarsi nella zona sicura da parte di chi avrebbe i soldi per osare non può non far storcere la bocca. Se poi ci mettiamo anche il fatto che il cinema guarda sempre di più ai videogiochi, con risultati spesso non entusiasmanti, la sfilza di serie di Star Wars annunciate (e tutto il resto) sia ha proprio l’idea di un mainstream che mangia e digerisce sé stesso in un loop continuo di grandi narrazioni intoccabili in grado di fare grandi numeri e dalle quali non sembra esserci scampo.
Questa situazione è piacevole, anzi, spettacolare, se sono narrazioni che ami, ma immaginate per un attimo di non essere assolutamente interessati a Star Wars (lo so, sembra impossibile, ma ci sono persone così) e di vivere in un mondo che si appoggia costantemente su cose che non vi interessano, immaginate di odiare la pasta al pomodoro e trovarvela ogni giorno servita come portata principale del menù, che la maggior parte dei soldi del ristorante siano dedicati alla realizzazione di quella pasta e tutto il resto sia fatto con scarti o senza dedicargli la stessa cura, non sentireste anche voi il bisogno di qualcosa di nuovo, un gioco e del cioccolato?
Per carità, è quasi impossibile chiedere ai videogiochi di fascia alta il coraggio di innovare, perché il coraggio te lo tolgono gli investitori, la borsa, un pubblico che non sempre premia la novità, e le decine o centinaia di persone che alla fine della storia vivono di quelle decisioni. Il guizzo, l’originalità, la rottura degli schemi è la missione dei giochi indipendenti. Un po’ come nel mercato musicale, a loro spettano le avanguardie culturali, non certo ai grandi colossi del pop. Però ammettiamolo, ogni tanto sarebbe bello vedere un sacco di milioni lanciati addosso a qualcosa di completamente nuovo. È già successo in passato, sarebbe bello vederlo accadere ancora e ancora.
Certo, sappiamo bene tutti che basta studiare un po’ la storia dei videogiochi per notare che non è una storia fatta di originalità, ma di copie delle copie, di cloni, archetipi e idee che si ripetono anno dopo anno con minime variazioni finché non arriva quella che ridefinisce il genere o la scheggia impazzita che cambia tutto, magari grazie a tecnologie nuove. L’evoluzione dei videogiochi è simile a quella delle specie: la sopravvivenza del più adatto, iterazione dopo iterazione, con alcuni momenti in cui qualcosa di nuovo improvvisamente cambia le regole del gioco. E quindi ecco che improvvisamente arriva Doom, ma subito dopo arrivano tonnellate di giochi FPS, ma Doom è un caso raro, più spesso ci troviamo di fronte a situazioni come League of Legends, che sta ai vecchi strategici in tempo reale come un animale di oggi sta ai suoi antenati di milioni di anni fa. Oggi, in un mercato ormai consolidato, l’innovazione totale è spesso un rischio che si sono presi un sacco di progetti falliti, e mica tutti possono essere come Nintendo, perennemente in equilibrio tra la tradizione più ortodossa e l’innovazione che fa la linguaccia agli schemi.
Eccoci dunque a metà del guado tra “Oddio che bello un altro gioco su qualcosa che amo e mi piace” e “Ancora un gioco su Batman/Star Wars/l’ennesima cosa che conosco?” e non c’è soluzione, perché in fondo, anche noi consumatori la risposta non ce l’abbiamo. Vogliamo la novità, ma raramente la premiamo, cerchiamo qualcosa che ci sconvolga, ma non troppo, vogliamo situazioni piacevoli, familiari, ma siamo tentati dalle acque profonde, dalle terre inesplorate. Siamo frammentati in tribù grandi e piccole che spesso si guardano male e si criticano, salvo poi compattarci se qualcuno ci tratta male.
E dunque mi spiace, perché se cercavate un conforto al vostro dubbio io non ce l’ho, perché voglio fortissimamente voglio un gioco nuovo di Star Wars di Ubisoft e pure uno di Electronic Arts, anche se in cuore mio so che forse me li sarò dimenticati rapidamente dopo averli finiti e che mi lamenterò della loro scarsa innovazione, salvo poi chiedermi dopo qualche mese “Ma perché non fanno un bel gioco di Star Wars?”
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