Hell Is Us non è un gioco per tutti e non cerca nemmeno di esserlo. L’opera prima di Rogue Factor, pubblicata da Nacon, è un atto di coraggio, un grido sordo nel panorama videoludico moderno. Un titolo che taglia via ogni forma di comfort, indicazione e segnaletica, lasciandoti immerso in un mondo spoglio e silenzioso dove la comprensione non viene mai regalata, ma conquistata. In questo senso, è un gioco radicale, profondamente affascinante, ma anche incompleto, zoppicante e frustrante sotto certi aspetti. Una dualità che rende difficile assegnargli una valutazione secca, ma che proprio per questo ne amplifica la forza espressiva. Alla fine, Hell Is Us è uno di quei giochi che non si spiegano, ma si attraversano e che si ricordano più per ciò che evocano che per ciò che raccontano davvero. Dopo aver passato svariate ore dentro il suo mondo malato, siamo pronti a raccontarvi le nostre impressioni nella recensione di Hell Is Us.
Il silenzio come narrativa
Non esiste un diario delle missioni, non esistono waypoint. Non esistono dialoghi ridondanti o scene d’intermezzo invasive. La narrazione di Hell Is Us è volutamente criptica, sussurrata, quasi trattenuta. Ci viene raccontato che il protagonista, un uomo con un passato militare, fa ritorno nella sua terra natale – un paese non meglio geograficamente specificato, attraversato da una guerra civile e da una misteriosa piaga sovrannaturale. La missione è ritrovare sé stesso, i propri genitori e forse qualcosa di più profondo, ma nessuno lo dirà mai apertamente.
L’approccio è chiaro: lasciare che sia il giocatore a esplorare, interpretare, ricostruire i pezzi mancanti. Un metodo che richiama esperienze come Shadow of the Colossus, Death Stranding o Sable, ma con una componente mistica e metafisica ancora più marcata. Questa caratteristica per lunghi tratti funziona: muoversi attraverso la terra di Hadea è immersivo, coinvolgente, quasi meditativo. Le atmosfere sono cupe, ma non ostili. Le strutture abbandonate, i paesaggi interrotti da silenzi improvvisi, le presenze invisibili… tutto suggerisce, nulla impone.
Questo tipo di storytelling richiede però un contesto forte, personaggi credibili e una progressione tematica che motivi la lentezza. Hell Is Us non sempre riesce in questo. Il protagonista è un involucro vuoto, e la trama – pur suggerendo temi importanti come la memoria, il trauma e l’identità – resta fin troppo sfumata, al limite dell’evanescenza. È un’esperienza che si vive più per ciò che stimola, che non per ciò che realmente accade.
Uno stile inconfondibile
Dove il gioco colpisce senza riserve è nell’impatto visivo. La direzione artistica è superba. Non tanto per la potenza del motore grafico – che anzi, mostra limiti evidenti in termini di animazioni e dettaglio tecnico – ma per le scelte estetiche. Il mondo di Hadea è una distopia fragile, dove la natura ha preso il sopravvento su città mezze distrutte e infrastrutture lasciate a marcire. Il design delle creature, degli oggetti e dei paesaggi è surreale, pittorico, rarefatto. Ogni angolo sembra progettato per essere osservato con calma, analizzato, assorbito.
Le creature corrotte che infestano il territorio sembrano sculture in movimento: hanno forme impossibili, tra l’organico e il meccanico e appaiono come incubi resi tangibili. L’illuminazione, volutamente morbida e dai toni grigi e violacei, amplifica questa sensazione di disorientamento. Non è un gioco che ti vuole stupire con l’iper-realismo, anzi cerca in tutti i modi di inquietarti, spingendoti a guardare meglio, a trovare il significato nascosto dietro le forme. In questo, Hell Is Us è un’esperienza estetica rara nel panorama videoludico odierno.
Una delle scelte più apprezzabili di Hell Is Us è l’eliminazione totale della mappa. Nessun GPS, nessun radar; solo tu, il tuo drone e l’ambiente. L’esplorazione diventa quindi un atto di osservazione, deduzione e memoria. Bisogna guardare i segnali lasciati dai superstiti, i graffi sulle pareti, i suoni lontani, le variazioni nel vento. Ogni dettaglio ambientale può essere una traccia, un suggerimento, un invito a proseguire o un monito per qualcosa di temibile poco più avanti.
Il level design è intelligente e ben strutturato. Anche se all’inizio sembra di vagare nel vuoto, ben presto si impara a riconoscere gli elementi chiave: edifici abbandonati, grotte misteriose, altari dimenticati. Non si tratta mai di seguire una freccia, ma di leggere il mondo come fosse una pagina scritta con l’inchiostro della guerra e dell’oblio. E in questo dipinto di terrore, la sensazione di scoperta è autentica e restituisce un piacere che pochi giochi oggi sanno offrire.
Un gameplay claudicante
Il problema più evidente di Hell Is Us è purtroppo legato al combattimento. Le sezioni action, sebbene rare, sono parte integrante dell’esperienza, e lasciano molto a desiderare. Il protagonista può utilizzare armi corpo a corpo – spade, lance, mazze – e una spada speciale per combattere le creature sovrannaturali. Ma il sistema è legnoso, poco reattivo, impreciso.
I movimenti sono rigidi, le collisioni inconsistenti. Le combo sono limitate, le animazioni spesso ripetitive. Non c’è varietà, non c’è dinamismo, e soprattutto manca quella sensazione di controllo pieno che dovrebbe essere alla base di qualsiasi sistema di combattimento. Dopo le prime ore, ogni scontro diventa una routine poco soddisfacente, quasi un fastidio da superare per tornare all’esplorazione.
Discorso simile per l’intelligenza artificiale dei nemici, che alterna momenti di aggressività cieca a fasi di totale apatia. La sensazione è che il combattimento sia stato integrato per dovere, non per reale convinzione. Hell Is Us è un gioco a due velocità. Da una parte, un’esperienza artistica profonda, libera, affascinante. Dall’altra, un gameplay povero, ripetitivo, poco rifinito. Questa dissonanza si sente sempre, e alla lunga pesa. Ci sono momenti in cui l’immersione è totale, e ti sembra di stare giocando qualcosa di nuovo, coraggioso, indimenticabile. Ma bastano pochi minuti di combattimento, o un’interazione mal calibrata, per riportarti bruscamente alla realtà.
A questo si aggiunge una trama che, pur promettendo introspezione e mistero, si arena in una sequenza di eventi poco incisivi, con dialoghi minimi e personaggi secondari privi di spessore. La volontà di puntare tutto sull’atmosfera e sull’enigma va a discapito del coinvolgimento emotivo. Il risultato è un’esperienza contemplativa, ma fredda. Ricca di suggestioni, ma povera di emozioni autentiche.
Commento Finale
In fin dei conti, Hell Is Us è un gioco che divide. Un titolo che affascina per la sua estetica e per la sua filosofia di design, ma che delude sul piano ludico e narrativo. È un’opera che sembra d’autore, ma che a conti fatti non lo è. Un’opera figlia di una visione forte, ma incapace di trasformare quella visione in un’esperienza davvero compiuta. Un esperimento che merita attenzione, ma anche uno che fatica a trovare equilibrio tra forma e sostanza. Siamo davanti a un gioco consigliato a chi cerca qualcosa di diverso, di artistico, di sfidante sul piano percettivo. Ma sconsigliato a chi cerca un gameplay solido, una trama coinvolgente o una progressione chiara. In un’industria spesso ossessionata da formule collaudate, Hell Is Us è un’anomalia necessaria e anche se non riesce a mantenere tutte le sue promesse, resta un titolo che ha il coraggio di cercare un modo nuovo di raccontare il videogioco.
la recensione in breve
Hell Is Us è un titolo a metà che riesce, ma solo in parte, nel suo intento di coinvolgere il giocatore con elementi affascinanti e originali, perdendo però la battaglia del divertimento sotto il peso di un gameplay ripetitivo e poco stimolante.
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Voto Game-eXperience