Probabilmente non sono l’unico ad aver pensato “questo gioco sembra davvero figo” vedendo il primo trailer di Ghostwire: Tokyo.
Dopo averlo giocato vorrei tanto potermi materializzare dietro il me stesso del 2019 per mettergli una mano sulla spalla e dire “Lo è, ma…” e poi scomparire nel nulla proprio come una delle anime del gioco. Giusto per lasciarlo nel dubbio e ridere alle sue spalle.
La premessa di Ghostwire: Tokyo è interessante, anche se arriva nello stesso modo in cui ci risveglia dopo un pericoloso sonnellino pomeridiano di due ore terminato poco prima di cena. Avete presente quando vi svegliano di soprassalto per chiedervi cosa volete da mangiare e la vostra risposta è uno sbiascicoso “ancora 5 minuti mamma”?
È così che deve essersi sentito anche il protagonista Akito, posseduto in fin di vita dopo un incidente stradale da uno spirito di nome KK arrivato a Shibuya per cercare un corpo da abitare. Tokyo è infatti improvvisamente deserta, privata della quasi totalità della popolazione per lasciare spazio a un’orda di spettri e creature mostruose generate dai sentimenti negativi delle persone. L’unico presente è proprio Akito, ma solo perché scelto casualmente da KK per diventare portatore temporaneo del suo incredibile potere.
Come se fossimo ancora ai tempi del meme “no time to explain”, l’avventura di Akito ha inizio con un salto della fede nei confronti di KK. Questo spirito è disposto a dargli abilità sovrumane, ma a condizioni di essere aiutato a sua volta per indagare su cosa sia successo. Il centro di tutto pare sia un uomo mascherato, chiamato Hannya proprio per via del suo travestimento ispirato alla cultura giapponese: il comando degli spiriti maligni sembra sia sotto il suo controllo, ma ad Akito non basta così “poco” per fidarsi di KK.
È solo qualche minuto dopo che gli intenti di Akito e KK diventano comuni. Il protagonista è infatti molto preoccupato per la sorella Mari, costretta in ospedale dopo un incidente domestico che ha segnato la sua giovane esistenza. Hannya, da bravo cattivone, precede la coppia di sopravvissuti e rapisce Mari per compiere gli ultimi passi del suo folle piano distruttivo.
Da qui in poi, Tokyo è gradualmente a disposizione per essere esplorata. In varie aree della città sono presenti Torii che funzionano esattamente come in Assassin’s Creed. Solo grazie a queste si possono liberare nuove sezioni da una nebbia in grado di vaporizzare il corpo umano ed estrarre la sua anima. Non tutto è ovviamente esplorabile dall’inizio, quindi occorre progredire prima con le varie quest.
La narrazione è tipicamente giapponese, con un nemico pomposo e autocelebrativo il cui obiettivo è nascosto quasi fino alla fine. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, la storia di Ghostwire: Tokyo comincia lentamente per poi trovare l’apice soltanto nelle battute finali, con alcune sequenze alla P.T. (nostalgia, eh?) che risollevano quel tanto che basta una trama altrimenti poco incisiva.
La linea principale di Akito è comunque affiancata da una serie di missioni secondarie che potrebbero fare gioco da sole. Da una parte c’è infatti il dramma familiare/cittadino di Akito e KK, dall’altra ci sono tutte le anime mortali sparse per Tokyo in attesa del loro trapasso. Gli sviluppatori hanno svolto un lavoro sopraffino nell’evitare il senso di ripetizione, fornendo a ogni anima una storia personale ispirata a eventi realmente raccontati da persone incontrate nella vita del team.
Una guida virtuale per il Giappone
Ghostwire: Tokyo mi ha dato una marea di informazioni sulla cultura giapponese. Il suo folklore è ovunque ed è composto dai vari spiriti benigni o maligni da catturare, dalle storie passate tra finzione e letteratura, dai contenitori per le donazioni (molto interessanti perché necessari per trovare i collezionabili) o dalle statue dove pregare per ottenere abilità migliorate.
È al tempo stesso una critica severa per la sua società a tratti follemente oppressiva e una carezza per quelli che sono invece gli aspetti distintivi e sereni, come l’attaccamento agli antenati e alla famiglia. I Visitatori, nome scelto per identificare i nemici, non sono altro che la rappresentazione eterea dello stress sul lavoro, dei malumori giovanili, dell’avidità, dei malpensieri, delle maledizioni o di tutto ciò che regola negativamente la vita di una persona giapponese.
Dall’altro lato ci sono spiriti benevoli come i Nekomata, che in questo caso sono anche centrali per sbloccare determinati elementi di gioco e per la compravendita di oggetti. Ci sono poi tutti i Tanuki da trovare in giro per la città. Come se non bastasse, si possono accarezzare cani e gatti oppure addirittura leggere i loro pensieri. Non basta come selling point?
Persino la pioggia, che mi sembrava di scarsa qualità per la sua texture, è in verità un tocco geniale: le gocce possono sembrare sgranate, ma sono in verità composte dall’ideogramma che significa letteralmente “pioggia”.
Le mie mani fanno cosa?
Tutto molto bello quando si parla di cultura orientale, ma mentre mi guardo in giro potrebbe esserci una ragazzina liceale senza testa pronta a tirarmi un calcio rotante in stile Chuck Norris. La difesa perfetta è nella mano di Akito, ma per via di KK. Il combattimento è quasi esclusivamente a medio-corto raggio, con attacchi di tre tipi diversi: vento, acqua e fuoco. Il miglioramento di queste abilità va di pari passo con la progressione del gioco e l’accumulo di punti per sbloccare nuove caratteristiche.
All’inizio è basilare, ma ho notato subito alcuni aspetti che purtroppo vengono portati fino alla fine. Akito è molto lento. I nemici sono tanti. Non c’è alcuna abilità che possa cambiare questo dilemma. Una volta internalizzata questa discutibile farraginosità dei movimenti e del sistema di mira (per certi versi davvero fallace e imprevedibile), per fortuna la varietà dei combattimenti migliora sensibilmente col tempo. Ci sono infatti molti più spiriti di quanto i trailer abbiano fatto capire e devo ammettere che alcuni sono stati in grado di farmi pensare “Nope.” e scappare a gambe levate.
Non che sia facile, per via di movimenti approssimativi e difficoltà nel capire cosa si possa scavalcare e cosa no. Mi è capitato spesso di non poter salire su muri più bassi di altri che avevo già valicato. Ho ancora grandi dubbi invece per gli strumenti commestibili: ne esistono di vari tipi, ma essendo tutti focalizzati sulla restituzione di punti salute, alla fine vi troverete a usare in continuazione i primi che capitano sotto tiro.
A dare spettacolarità aiutano molto i colori vividi e ipersaturi delle abilità e dell’Etere che viene disperso in aria per ripristinare i punti spesi. Se inoltre sembra che Akito non tolleri più di tanto la presenza di KK nelle battute iniziali, basta qualche ora di gioco per accorgersi che è solo grazie a loro se si può puntare alla sopravvivenza. Come si diceva? Non si sente mai la mancanza di una cosa finché non veniamo privati di essa?
Finalmente PS5 ha un (dual)senso
Menzione e lode speciale per il pad di PS5, unica e sacra periferica per vivere al massimo l’esperienza di Ghostwire: Tokyo. Solennità a parte, è veramente così. I feedback aptici sono sfruttati in maniera impeccabile. La pioggia che cade dal cielo è avvertibile nelle mani. C’è addirittura una scena molto avanzata in cui è possibile percepire il tap-tap delle dita di Akito sulla cabina telefonica. Fateci caso!
Ogni attacco lanciato genera una resistenza nei grilletti, come per trasmettere la fatica fisica degli incantesimi. Difficilmente mi troverei d’accordo a ripetere questa esperienza con un classico pad o, ancora peggio, con un mouse e tastiera per natura privi di questo livello di immersione. La parte centrale del pad viene inoltre utilizzata per muovere le dita durante le purificazioni.
La stessa resistenza è ritrovabile nel momento in cui si liberano le anime dal loro limbo, accogliendole nei katashiro per poi spedirle tramite una cabina telefonica. Molto bene davvero.
Sugoi desu ne?
Il comparto visivo di Ghostwire: Tokyo è piacevole, ma non eccellente. Nonostante esistano ben sei impostazioni predefinite per la qualità grafica, soltanto una di queste sembra essere il compromesso migliore, ovvero la modalità performance HFR con V-SYNC attivato. I motivi sono presto detti: il gioco soffre molto di aliasing, soprattutto se si sceglie un framerate a 30fps con raytracing attivato. La soluzione è proprio il V-SYNC, ma tenere comunque attivata una tecnologia così “alta” per ombre e luci crea troppa disparità di trattamento tra i vari elementi a schermo. Ci sono pozzanghere realistiche accanto a veicoli troppo piatti. I panorami nemmeno troppo lontani sono così poveri di dettagli che cozzano con la lucidità delle strade. Tanto vale dunque scegliere la performance per avvicinare il tutto e godere anche di un framerate sbloccato grazie all’HFR, che si mantiene sui 60fps con qualche sporadico drop in casi veramente concitati.
Tutto questo non va per fortuna a intaccare il lavoro artistico e di ricreazione della città e in particolare di Shibuya. Sembra di stare a Tokyo. Le insegne luminose, i maxischermi, i negozietti che popolano le vie del centro, tutto esclama Giappone da ogni poro e regala un’immersione che difficilmente potrei trovare altrove al momento senza alzarmi dalla sedia su cui ho giocato.
Io non ho paura
È arrivato il momento della domanda fatidica. Ghostwire: Tokyo è un gioco horror? No, per nulla. Lo dico da persona che non riesce nemmeno a immaginarsi davanti allo schermo a guardare su Twitch altre persone che ci giocano. Per questo, ai tempi delle prime immagini, avevo già classificato Ghostwire: Tokyo come “un horror che forse potrei giocare anche io”.
La verità è diversa. Gli stessi sviluppatori hanno definito questo gioco come un action/adventure con alcune meccaniche horror, una definizione che si avvicina già di più al tipo di esperienza che ho provato. Avrei però preferito ci fosse proprio una vera componente dell’orrore, vista la premessa, o perlomeno un po’ di quell’ansia di vivere che ti porta a pensarci due volte prima di svoltare l’angolo e rischiare di trovarti addosso una manciata di spiriti malvagi.
Nulla di tutto questo. Tokyo è una città deserta nella notte più lunga della sua storia, ma comunque illuminata a giorno dagli schermi del centro e da una combinazione tra nebbia e luce lunare in grado di schiarire anche le vie più lontane. Sembra quasi che non esista oscurità, nemmeno nei cunicoli della metro o nei sotterranei dove sarebbe bastato qualche neon malfunzionante per creare un minimo senso di inquietudine.
Non è nemmeno una questione di difficoltà, scalabile su 4 livelli. Tutti i nemici possono essere individuati tramite le abilità di KK per pianificare il proprio attacco, quindi è virtualmente impossibile che siano loro a sorprendere il giocatore. Le uniche situazioni salvabili da questo punto di vista sono alcuni momenti a metà strada tra gameplay e cutscene in cui l’ambiente circostante cambia schizofrenicamente aprendo e chiudendo passaggi, oppure modificando completamente il set per mandare in palla la bussola mentale.
La recensione in breve
Non fatevi abbattere dalle ultime considerazioni. Basta essere consapevoli che Ghostwire: Tokyo non sia un gioco horror per godere comunque della sua esperienza. Al netto di scelte grafiche e tecniche non del tutto comprensibili, resta infatti un titolo in cui perdersi per abbracciare la quasi totalità della cultura giapponese. Mi è risultato difficile staccare per fare pausa e continuare il giorno seguente. Il combattimento non è il massimo? Forse, ma le storie raccontate dai fantasmi nella città e la quantità di collezionabili in giro per le vie sono un buonissimo motivo per andare avanti e approfondire la situazione di Akito, di sua sorella Mari, di KK e di Hannya. Della serie: non è esattamente ciò che mi aspettavo, ma sono comunque contento che sia successo.
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Voto Game-Experience