C’è un tipo di bellezza che non fa rumore, una che ti entra sotto pelle senza bisogno di parole. Ghost of Yotei è così: silenzioso, elegante, estremamente consapevole della sua forma. Non ha bisogno di urlare per imporsi e non grida rivoluzione, ma fissa sicuramente un alto standard di esecuzione tecnica. Se Ghost of Tsushima aveva già segnato il percorso, Ghost of Yotei non solo lo eguaglia, ma in alcuni momenti, lo supera per chiarezza visiva, varietà del gameplay e immaginario. Non è un’opera priva di difetti — anzi, la sua struttura narrativa zoppica, il villain fatica a imporsi e come molti open world recenti cade nella ripetizione — ma quando si tratta di estetica, scorrevolezza e cura dei dettagli, ci troviamo davanti a una lezione di stile. Dopo averci passato diverse ore, siamo pronti a raccontarvi le nostre impressioni nella recensione di Ghost of Yotei.
Una cavalcata al vento
Ghost of Yotei prende le distanze da Tsushima nel momento esatto in cui capisce che non deve più dimostrare nulla. La gestione della telecamera, del movimento, dell’impatto visivo: tutto fluisce con una sicurezza rara, figlia dell’esperienza pregressa. Il passaggio alla nuova generazione non è solo una mera questione di grafica: è ritmo, è coerenza. La distanza visiva è straordinaria, ogni frame è studiato per valorizzare la verticalità della montagna sacra che dà il nome al gioco e gli spazi aperti sono finalmente davvero aperti. Non tanto per estensione — quella non è mai stata il problema — ma per accessibilità. Nessuna barriera invisibile, nessun caricamento palese. Solo cammino, vento, neve, e silenzi pieni di significato.
L’ambientazione è probabilmente il più grande successo del gioco. Non c’è un solo angolo del mondo di Yōtei che appaia fuori posto. L’uso della luce naturale, la gestione del ciclo giorno-notte, la rifrazione su superfici gelate, la densità delle foreste: ogni elemento sembra dipinto a mano, ma senza diventare artificioso. Il monte Yotei, ispirato al reale stratovulcano dell’Hokkaidō, domina l’orizzonte, ma non è solo sfondo: è presenza narrativa, guida visiva, minaccia silenziosa. L’inverno è ovunque, ma mai monocromo; la neve sa diventare morbida, compatta, tagliente. Le tempeste non sono eventi climatici: sono strumenti di linguaggio.
È proprio in questo contesto che la protagonista Atsu si muove, silenziosa come il vento, spinta da una vendetta che non ha bisogno di parole. Il gioco abbandona progressivamente la struttura lineare per abbracciare una semi-libertà che non disorienta mai. Non è necessario esplorare tutto. Non è nemmeno richiesto, ma ogni deviazione premia, ogni sentiero secondario racconta una storia, spesso più efficace di molte cutscenes contemporanee. Yotei è un mondo che non ti implora di essere vissuto: ti osserva in silenzio, e aspetta che tu sia pronto. Nonostante questo, alle volte il gioco sembra che si perda su se stesso, roteando attorno a delle dinamiche narrative già viste, trite e ritrite che ti svegliano dal favoloso mondo onirico in cui l’ambientazione ti culla.
Luci e ombre di un mondo splendente
Sul fronte del combattimento, la sensazione è quella di un sistema raffinato più che rivoluzionato. Gli scontri sono puliti, leggibili anche nella modalità Kurosawa e beneficiano di un frame rate granitico anche nelle situazioni più concitate. L’intelligenza artificiale non è particolarmente brillante, ma la messa in scena sicuramente aiuta. Le armi hanno un peso, le parate sono precise, e sebbene non ci siano meccaniche particolarmente innovative, l’insieme di situazioni ludiche che ritornano e introduzioni come le doppie katane offrono il giusto peso all’opera. La scelta di mantenere un’impostazione semi-realistica, con pochi colpi a disposizione per soccombere, aggiunge una tensione latente che funziona, specie nei duelli singoli. Le boss fight, invece, sono altalenanti: alcune memorabili, altre quasi dimenticabili.
Atsu, silenziosa e riflessiva, è un contraltare perfetto agli archetipi occidentali del vendicatore urlante. Ma è proprio grazie al gameplay minimalista che la sua crescita personale diventa poco tangibile: ogni nuova abilità sembra modificare poco l’asticella di cosa puoi o non puoi fare, ogni sconfitta. Non siamo di fronte ad un eroe sovrumano, ma a una donna segnata dal gelo, dal tempo e dalla perdita. Per questo motivo dunque avremmo forse preferito una soluzione differente per la progressione di Atsu.
Proprio riguardo al sistema di progressione, ci si trova davanti a un albero delle abilità non eccessivamente vasto che privilegia l’evoluzione stilistica più che quella puramente statistica. Le tecniche di combattimento si apprendono dai maestri sparsi per la mappa, ognuno con la propria filosofia. Questo permette al giocatore di plasmare il proprio stile da un lato: più furtivo, più frontale, più reattivo. Ma senza avere un reale “potere” ludico tangibile tra le mani del giocatore. Nessun potere eccessivo, nessuna abilità fuori contesto. Solo affinamento. La scelta narrativa di legare la crescita di Atsu ai suoi ricordi — sbloccabili attraverso segmenti interattivi — restituisce profondità sicuramente senza appesantire il ritmo, ma siamo sicuri che per molti sarà un elemento contraddittorio.
Un villan senza mordente
Procedendo nell’avventura di Ghost of Yotei emerge il problema più evidente della produzione: il villain. Lord Saito, la mente dietro la distruzione del clan di Atsu, è un’ombra sbiadita. Non perché manchi di potenziale — il concept c’è, la voce è convincente, la minaccia è palpabile — ma perché viene sistematicamente oscurato dai suoi comprimari. I sei luogotenenti, i cosiddetti “I sei di Yotei”, sono meglio scritti, più visivamente distintivi, più narrativamente coinvolgenti. Il gioco stesso sembra preferirli. Questo sbilanciamento toglie peso emotivo al conflitto centrale. Confrontarsi con Saito non è catarsi: è una formalità. Un peccato, perché il resto della narrazione, pur minimalista, funziona.
Anche il design delle missioni secondarie oscilla. Alcune sono frammenti poetici — piccole storie di perdita, memoria, superstizione — nascosti soprattutto tra le pieghe delle “taglie” mentre altre si riducono a semplici incarichi di raccolta o scoperta di luoghi. È qui che Ghost of Yotei inciampa in quello che ormai è un problema strutturale dei moderni open world: la ripetitività mascherata da libertà. C’è molto da fare, ma non sempre vale la pena farlo. La mappa è grande, ricca, stratificata, ma non sempre ispirata nei suoi riempitivi. In certi momenti, sembra di tornare a percorrere sentieri già calpestati in altri giochi con altri personaggi. Il rischio del “more of the same” è sempre dietro l’angolo, e Ghost of Yōtei non riesce completamente ad evitarlo.
Detto questo, nei momenti in cui il titolo riesce ad aggirare in parte il senso di déja-vu grazie alla sua direzione artistica, sicuramente diventa un’opera degna di essere vissuta. Menzione d’onore anche alla modalità fotografica, curatissima. Ormai un must delle produzioni Sony, la modalità per appassionati fotografi permette di giocare con luce, esposizione, meteo e persino inclinazione del sole. Non è solo una feature accessoria, ma un mezzo per osservare meglio il mondo, per rallentare, per apprezzare.
Comparto tecnico
Sul piano tecnico, invece, il titolo brilla. Non solo per la grafica, ma per la gestione delle risorse, la velocità di caricamento, la stabilità complessiva. Le animazioni facciali sono convincenti, la fisica ambientale reattiva, il lip sync preciso anche nelle lingue non originali. L’integrazione del DualSense su PS5 è intelligente: il feedback aptico restituisce la tensione dell’arco, il contatto della lama, persino il fruscio della neve sotto i piedi. Non sono gimmick: sono dettagli che migliorano l’immersione.
La colonna sonora, composta da artisti giapponesi contemporanei, evita la grandiosità hollywoodiana per restare aderente al tono dell’opera. Flauti, percussioni leggere, corde tese: ogni nota accompagna e non invade. Il doppiaggio giapponese è di livello altissimo e il team ha avuto l’accortezza di dare priorità a questa lingua in fase di sviluppo, evitando disallineamenti frequenti in titoli simili. L’accessibilità è un altro punto a favore. Non solo per la presenza di opzioni classiche — sottotitoli, riduzione dei tremolii, indicazioni visive — per l’integrazione nel gameplay. Il sistema madi navigazione con il vento, già visto in Tsushima, qui è evoluto: non solo indica la direzione, ma suggerisce anche il tipo di attività disponibile, rendendo l’interfaccia quasi superflua. Un design pensato per essere sentito, non guardato.
La recensione in breve
Ghost of Yotei è a conti fatti un more of the same, bellissimo, ma pur sempre uguale a gran parte degli open world presenti sul mercato. Quando eccelle, come nel comparto artistico, riesce a immergenti in un mono onirico tutto suo. Peccato che quando invece mostra il fianco alle sue debolezze, ti risvegli bruscamente in un mondo fatto di poco coraggio di rischiare.
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Voto Game-eXperience