Se il divertimento è un elemento fondamentale all’interno dell’economia del videogioco, spesso e volentieri si rischia di annichilire il proprio senso critico. Diverso per definizione dall’intrattenimento, il divertimento può essere dunque un’arma a doppio taglio che da un lato valorizza le interazioni che un titolo deve suscitare mentre dall’altro “acceca” la mente del giocatore. Quanto è resistente dunque la barricata del divertimento? Basta che un gioco sappia divertire per poter essere considerato un titolo valido? Scopriamolo insieme.
Alla base del videogioco vi sono due pilastri imprescindibili: l’interazione e l’intrattenimento. Un prodotto, per poter entrare nella definizione stessa di videogioco, deve rispettare questi due canoni fondamentali. Capace dunque di intrattenere attraverso gli input del giocatore che, per mezzo di pad, mouse e tastiera, volante e chi più ne ha più ne metta, interagisce con gli eventi a schermo in tempo reale, il videogioco ha saputo evolversi, spaziando tra generi e meccaniche che, per quanto ramificate, ruotano tutte intorno allo stesso concetto. Non tutti i videogiochi divertono, alcuni ci tengono sulle spine, altri ci spingono a riflettere, altri ancora ci fanno sognare. Al di là del messaggio veicolato, lo scopo del videogioco, proprio come quello del cinema, è quello di mantenere la nostra attenzione sullo schermo. Non andremo ad analizzare cos’è il divertimento, ognuno di noi si diverte in modo diverso in quanto stimolato da diversi elementi, gettando la prima base di quelli che alla fine saranno i gusti del giocatore. Se non capite dunque come si fa a divertirsi giocando a Fifa o sparando su CoD o pianificando guerre su Age of Empires, sappiate che è del tutto normale. Non volendo dunque sindacare quelle che sono le fondamenta del divertimento che, più o meno articolate, vanno ad intrecciarsi con il background socio-culturale del giocatore, preferiamo parlare del modo in cui i videogiochi stimolino queste sensazioni.
Sono svariati i casi in cui il videogioco si pone come semplice base al divertimento ovvero, attraverso una serie di regole e di meccaniche, getta le basi per far sì che il giocatore trovi il modo di divertirsi come meglio crede. Questo concetto viene abbracciato dai GdR moderni che, attraverso mondi sconfinati ed approcci potenzialmente infiniti, invitano il giocatore alla creatività pur tenendolo sotto scacco per mezzo delle regole che muovono il mondo di gioco. A questo proposito è impossibile non citare Sea of Thieves, il titolo di Rare infatti non fa altro che gettare delle, forse troppo, semplici basi lasciando che i giocatori invadano il mondo piratesco, muovendosi all’interno di quest’ultimo si rispettando le regole ma potendo spaziare all’interno di esse. La riflessione a questo punto ci porta ad un quesito che può sembrare banale ma, fidatevi, non lo è: un titolo come Sea of Thieves è divertente ma, quanto di questo divertimento deriva dal titolo e quanto invece nasce spontaneamente dal giocatore?
Quando ci riuniamo con gli amici per una birra, chiacchierando e divertendoci, il merito è della birra o del nostro rapporto con i nostri amici? Seppur in contesti completamente diversi, il rapporto tra il divertimento offerto da un videogioco e la capacità del giocatore di divertirsi è molto simile a quello tra la birra e gli amici seduti al tavolo del pub. Sea of Thieves in questo caso non è altro che un mezzo al divertimento posto a rappresentare un punto comune intorno al quale riunirsi, ma che non fa altro che dare il via a quella serie di interazioni che non hanno certamente bisogno del titolo di Rare per poter prendere vita. Il merito di Sea of Thieves in questo esempio è quello di dare ai giocatori un terreno sul quale coltivare il proprio intrattenimento senza che il videogioco intervenga per incentivarlo. Una piccola spinta che da l’accelerazione necessaria per affrontare la discesa, nulla di più. Non bisogna però vedere il “divertimento passivo” come un elemento necessariamente negativo, anche Minecraft e qualsiasi altro Sandbox non fa altro che mettere i giocatori all’interno di un “contenitore”, la capacità sta nel rendere le variabili di gioco completamente coerenti con le regole che gestiscono il mondo stesso, creando le possibilità che aspettano soltanto di essere scoperte dai giocatori. Un lavoro per nulla facile, soggetto ad un equilibrio incredibilmente delicato all’interno del quale anche il più insignificante elemento fuori posto può fare la differenza tra capolavoro e disastro.
Ma quali sono quei casi in cui il divertimento va ad oscurare alcune problematiche, almeno agli occhi dei giocatori? Prendiamo in esame il neo-uscito Anthem, il titolo di Bioware è indiscutibilmente soggetto a problematiche anche molto gravi che affliggono il game design e la struttura stessa del titolo. Il gameplay estremamente divertente riesce però a tamponare questi problemi, riuscendo a mantenere una community che, pur divisa tra devoti e critici, continua a giocare al titolo anche dopo un mese dalla sua uscita. Il divertimento può dunque inibire il senso critico del giocatore, portandolo a sorvolare su determinate problematiche che vanno ad evidenziare sempre di più le differenze in termini di esigenze tra casual gamers e hardcore gamers, questi ultimi, molto più esigenti e sicuramente più attenti, hanno metri di paragone decisamente diversi rispetto a coloro che vivono la propria passione in modo molto più leggero. L’unica vera e propria regola da seguire in casi del genere è quella di non pretendere che il divertimento sia l’unica cosa che conta all’interno dell’economia di un videogioco, una persona può anche divertirsi giocando a “chi tira il sasso più lontano” ma non stupiamoci se quest’ultimo non dovesse diventare una disciplina olimpica. Il succo del discorso può riassumersi in un concetto molto semplice da assimilare: divertimento non necessariamente vuol dire qualità. Questo non vuol dire che non ci si può divertire attraverso titoli qualitativamente lacunosi, l’importante è avere la consapevolezza e lo spirito critico necessario a distinguere il titolo semplicemente divertente da quello che riesce a prenderci anima e corpo. Il divertimento oggi è soltanto un tassello all’interno di un ecosistema ben più vasto e stratificato che ci separa dall’innocente divertimento di Pong all’esperienza più complessa dei videogiochi moderni. Stesso esempio si può fare con un titolo di recente uscita come Crackdown 3, chi non si diverte tra le esplosioni ed i colori dell’ultima esclusiva Microsoft? Un divertimento leggero che non riesce tuttavia ad eclissare le enormi problematiche che affliggono il titolo.
Come sempre, al di là delle critiche e dei fiumi di inchiostro virtuale che può scorrere tra le pagine del web, ciò che conta è il percepito del pubblico. Da qui nasce l’idea di questo Gamebuster, un invito alla critica costruttiva che non per forza deve tradursi in odio verso un titolo e tantomeno deve spingere i giocatori a snobbare dei titoli con i quali, tutto sommato, si passano bei momenti. Lo spirito critico deve nascere dall’esigenza di volere sempre di più e di alimentare quella che è l’incessante evoluzione dell’industria dei videogiochi. Il rischio è quello di andare nella direzione in cui il divertimento vada a prevaricare l’intrattenimento che, come spiegato in apertura, risponde a canoni ben differenti. Divertitevi dunque con ciò che più vi aggrada ma non abbandonate mai il vostro spirito critico e cercate di trarre quanto più possibile dalle esperienze di gioco che prenderanno parte del vostro background di giocatori. Il divertimento che uccide il videogioco è quello che spegne il pensiero ed il senso critico, facendoci dimenticare che il videogioco è molto di più del semplice divertimento.