Sono passati pochi giorni dall’arrivo di Wolfenstein 2: The New Colossus nei negozi, il titolo di Machine Games ha ricevuto un’accoglienza più che calorosa da parte della critica che del pubblico. Le avventure di Blazkowicz e le vicende trattate in Wolfenstein 2: The New Colossus hanno mosso discussioni di carattere politico e sociale che vanno ben fuori dal videogioco. Abbiamo deciso di fare lo stesso, a modo nostro, dedicando un episodio di Game & Watch al titolo targato Machine Games in relazione ad un regista molto particolare.
ATTENZIONE: L’articolo potrebbe contenere spoiler di Wolfenstein 2: The New Colossus e di altre opere di carattere cinematografico.
Au Revoir, Shoshanna!
Chiunque si sia avvicinato a Wolfenstein 2: The New Colossus ha sicuramente percepito qualcosa di insolito in determinate scene. Non si tratta semplicemente di smembrare più nemici possibili nel modo più creativo e surreale, si tratta di qualcosa di più profondo, viscerale, un odio catalizzato che sfocia nella violenza, spesso goliardica verso un fenomeno terribile nei confronti del quale normalmente si prova paura, timore.
Il fenomeno del nazismo è stato trasposto, attraverso opere di carattere cinematografico, letterario e anche videoludico, rispettando dei canoni ben precisi. Basti pensare a pellicole come La Vita è Bella o Il Pianista ed al modo in cui questi film trasmettono quel senso di oppressione, ingiustizia e terrore provocato dall’invasione nazista durante la seconda guerra mondiale. La figura dell’ebreo inerme, vittima degli abusi e di un genocidio capace di scuotere le fondamenta stesse della storia è ormai diventato un’icona di quello che è il pensiero comune nei confronti dell’olocausto. Wolfenstein percorre invece una via ben diversa in un mondo ucronistico nel quale il regime nazista si è espanso fino agli Stati Uniti, gettando il mondo intero sotto una dittatura inflessibile.
Lo stile narrativo di Wolfestein 2 non segue i canoni sopracitati, non mira alla compassione bensì alla reazione da parte del giocatore, sfogando quel senso di odio e di rivalsa che ognuno di noi prova nei confronti del nazismo, lo fa in modo goliardico, grottesco e spesso spensierato, una violenza gratuita che ripaga con la stessa moneta gli oppressori tanto temuti.
Durante la nostra esperienza su Wolfenstein 2 abbiamo notato in più di un momento una somiglianza, dal punto di vista puramente narrativo e stilistico, con le opere di Quentin Tarantino ed in particolare con Bastardi Senza Gloria. In entrambi i casi il fenomeno del nazismo non viene trattato con temuto rispetto bensì con estrema violenza, spesso ironica e grottesca. Basti pensare alla figura del tenente Aldo Raine, un soldato irriducibile pronto a sacrificare la propria vita pur di estirpare la minaccia nazista. Allo stesso modo la figura di William Joseph B.J Blazkowicz ritrae quella del soldato in prima linea. Sono diversi i punti in Wolfenstein nei quali è possibile individuare l’ispirazione da Tarantino, la scena del Milkshake all’interno del Bar a Roswell durante la quale l’espressività ed i toni utilizzati dal comandante nazista ricordano tantissimo quelli di Christoph Waltz nei panni del Colonnello Hans Landa. I modi gentili ed educati, velati da un senso di superiorità, che si trasformano improvvisamente in un’esplosione di malvagità alla vista del nemico, il tutto condito da chiacchere apparentemente superflue su argomenti come il milkshake. Anche la scena di Horton ricorda i tratti tarantiniani, una conversazione folle e profonda dal carattere intensamente politico, fatta di concetti ed ideali nel bel mezzo di una sparatoria bevendo Whiskey e ascoltando Jazz, un capolavoro di sceneggiatura, voice acting e narrazione che ci ha spinti verso le braccia di questo Game & Watch.
#nomorenazi
L’ispirazione di carattere tarantiniano, soprattutto nei confronti di Bastardi Senza Gloria va ricercata nella relazione tra personaggi principali ed antagonisti. In entrambi i casi il giocatore è spinto ad odiare i nazisti, per motivi diversi ma provando lo stesso identico odio e, mentre in altre opere l’odio dello spettatore o del giocatore resta insoddisfatto o viene sommerso da compassione, tristezza e rassegnazione, Wolfenstein 2 e Bastardi Senza Gloria reagiscono con il pugno duro, utilizzando la violenza come catalizzatore e sfogando gli istinti più reconditi dell’essere umano. La reazione del pubblico nei confronti di Wolfenstein 2 è stata però controversa, mentre nell’opera di Tarantino la violenza, spesso esplicita assumeva dei caratteri distintivi, il titolo di Machine Games ha ricevuto un trattamento diverso, l’hashtag #nomorenazi di Bethesda ha infatti sollevato diverse polemiche sulla legittimità della violenza mostrata e, in alcuni casi, è stata anche condannata. Ora, il Game & Watch non è sicuramente la sede più adatta per parlarne resta però curioso il modo in cui il pubblico reagisca in modi diversi in base al medium proposto risultando, nel corso degli anni, sempre meno tollerante e più estremista. Wolfenstein 2 e Bastardi Senza Gloria ci danno un nemico da odiare ma allo stesso tempo ci danno la possibilità di sfogare e soddisfare il nostro odio, la nostra sete di vendetta nei modi più creativi e violenti possibili nei confronti di un nemico comune che, ad oggi, è impossibile non odiare. Anche l’escalation finale di Wolfenstein 2 ricorda fortemente i toni di Quentin Tarantino, la sceneggiatura, il setting e i dialoghi riescono a trasmettere quel senso di grottesca follia che termina in pochissimi attimi senza dialoghi profondi o frasi d’uscita ad effetto, soltanto una veloce e violenta esecuzione, in pieno stile Quentin Tarantino.
Non soltanto Quentin
La trama ucronistica del nuovo Wolfenstein trae origine da parecchi romanzi, alcuni dei quali sono giunti sul grande e piccolo schermo. Basti pensare a Fatherland di Robert Harris, ma anche a “La svastica sul sole” di Philip K. Dick (lo stesso autore che ha ispirato Blade Runner, Minority Report e molti altri), recentemente adattato in serie televisiva con il titolo “L’uomo nell’alto castello”.
Tra le due opere quest’ultima è quella che propone lo scenario più differente dalla storia, in cui la Germania nazista non solo sopravvive grazie ad una tregua che sancisce la fine della Seconda Guerra Mondiale (in Fatherland), ma conquista anche l’intero Nord-America sconfiggendo le forze degli Alleati. Il racconto di Dick vede la California e gli altri stati dell’Ovest consegnati al Giappone come colonia, mentre il resto è assoggetato al governo di Berlino (inspiegabilmente assente ogni riferimento all’Italia invece, nonostante fosse membro dell’alleanza Roma-Berlino-Tokyo).
La trama prosegue dal punto di vista di diversi protagonisti, i quali non esplorano soltanto la condizione storico-sociale di questa storia alternativa, ma anche le reazioni umane ad essa. Il punto di vista dei reali vincitori e le ricadute di quell’esito ci sono ben note, ma cosa avrebbe provato un americano nel doversi sottomettere ai rappresentanti dell’Asse, a parti invertite? Conosciamo la Berlino divisa e la vita dei suoi abitanti, ma che scenario si sarebbe potuto aprire laddove una svastica fosse stata applicata sulla bandiera a stelle e strisce?
Pur non avendo ancora visto la serie televisiva, che pare differisca in alcune cose (introducendo dei personaggi nuovi ma forse mancando di sviluppare adeguatamente tutte le tematiche trattate nel romanzo, almeno nelle prime due stagioni), rimane invariata l’atmosfera del soggetto originario. Raramente difatti gli autori hanno voluto spingersi così tanto nell’immaginare ambientazioni ucroniche, forse intimoriti dalla difficoltà nel trattare l’argomento, immaginando non solo un plausibile sviluppo alternativo degli eventi, ma anche la reazione umana ad esso, al suo impatto nella caratterizzazione dei personaggi. L’opera di Dick invece riesce in questo intento grazie ad un notevole sforzo creativo, che assume un valore narrativo ben più concreto della semplice fantasticheria, grazie alla sua lucidità nel cogliere risvolti umani e socio-politici di quella che parte come una semplice domanda.