Enotria The Last Song non potrebbe essere più italiano di così. Sono italiani gli sviluppatori di Jyamma Games, italiani molti dei “consulenti” influencers che si sono succeduti nei video del canale ufficiale su YouTube. E, soprattutto, sono italiane la Lore e i personaggi principali. La direzione artistica e lo stile delle colonne sonore. Purtroppo anche da connazionali, orgogliosi del fatto che un team relativamente piccolo e giovane abbia lavorato a un titolo di livello internazionale, che punta così in alto fin dal primo annuncio, vi anticipiamo subito che questa recensione di Enotria The Last Song ha un compito ingrato: dirvi che essere italiani, stavolta non è bastato.
Il “Dark Souls italiano” è stato rifinito qua e là, ma non è cambiato molto dalla Demo pubblicata questa estate. Che, ahinoi, ne evidenziava evidenti criticità ludiche non patchabili in qualche mese. A fronte, è innegabile, di un comparto artistico ed estetico di tutto rispetto, persino invitanti. Tuttavia lo ripetiamo: ridimensionate le aspettative.
“Tutto il mondo è un palcoscenico”
Anche dopo un’intro così poco invitante, mentiremmo se non ammettessimo che il comparto narrativo e la lore di Enotria non ci hanno stupito in positivo. Rielaborando i classici stilemi dei Souls e costruendo sulle solide basi che negli anni hanno fornito, Jyamma Games ha confezionato un’identità originale. Un’identità che, oltretutto, comunica perfettamente “l’italianità” delle sue origini. Non manca nulla: un mondo una volta florido che è divenuto corrotto e si sta lentamente consumando; un pantheon più umano degli umani stessi che ha perso il controllo dei propri poteri e li sfrutta con egoismo e crudeltà; un solo possibile salvatore, sconosciuto, senza voce e senza nome, o in questo caso “senza maschera”.
In Dark Souls abbiamo a che fare con un universo forgiato dai draghi nel “grigio”, dove luci e ombre nascono da una scintilla umana e perciò fallace. Invece, in Enotria lo stage è un mondo decisamente ridente, baciato dal sole e di italica memoria. Tanto bello che i suoi custodi decisero un giorno di renderlo imperituro e immodificabile, proprio come la scenografia di un teatro. Pulcinella, Pantalone e Balanzone, Colombina e il grande burattinaio Arlecchino. Sono loro i deus ex machina di Enotria, simili alle controparti della maschera napoletana in cui hanno avuto origine, ma adeguatamente “soulizzati”. Resi cioè del tutto simili ai quattro portatori della fiamma, in tutto meno che nel ruolo avuto nel processo di decadenza della realtà.
Questi “attori”, come li definisce il gioco, non si sono però limitati a difendere il potere ottenuto, ma lo hanno sfruttato. Tutto per riscrivere le regole dell’universo in un “canovaccio” dove la morte non esiste, loro sono i regnanti e tutti gli altri sono diventati marionette nelle loro avide mani. Smascherarli è il nostro ruolo come “senza maschera”: quasi un “personaggio in cerca d’autore” e perciò libero dal controllo del nuovo canovaccio vergato dagli attori, che però non tarda comunque a trovare il suo ruolo nella vicenda e a perseguirlo.
A dirla tutta, i risvolti e i dettagli della riscrittura della realtà da parte delle maschere per quanto affascinanti in teoria non sono spiegati bene come avremmo voluto. Gli autori non si sono risparmiati con le classiche descrizioni di oggetti ed equipaggiamenti, che sono infatti evocative e ben pensate. Tuttavia, a differenza delle opere a cui si ispira, Enotria The Last Song non districa praticamente mai i fili della narrazione indiretta, che così per i più curiosi potrebbe comunque risultare insoddisfacente, nonostante l’attrattiva iniziale. Chi sono i senza maschera? Come mai Pulcinella ne aiuta uno a trovare i suoi compagni e sconfiggerli? Gli antichi Dei del mondo, pure presenti nell’intreccio, come si relazionano ai loro sostituti? Tante domande, e anche molte altre, alle quali non c’è risposta diretta, velata, suggerita o anche solo “stimolata” che sia.
Un gameplay artificioso: colpa dell’inesperienza?
Parlando di gameplay, purtroppo, c’è davvero poco da promuovere in Enotria. L’impianto di base è quello dei tipici soulslike, con ritmi non sempre ben definiti e un’indecisione di fondo su cosa sia importante per vincere uno scontro, e divertirsi nel frattempo. Per esempio: in Sekiro Shadows Die Twice parte tutto dal parry, che è centrale e insostituibile come meccanismo per battere chiunque. Bloodborne sposta l’asticella verso la rapidità dell’azione, includendo il parry come meccanica importante depotenziandone l’utilità, ma conservando un pacing di “botta e risposta” fulmineo.
I souls tradizionali, infine, dipendono dal concetto di build e dalle armi selezionate, grazie alle quali si può imprimere uno stile piuttosto che un altro. Ciononostante restano sempre i più “attendisti”, con scambi all’arma bianca più ragionati e in generale “lenti”. Persino quando sono incalzanti, si pensi a Malenia, ad Artorias o a Gael di Dark Souls 3, sono ugualmente progettati per sfidare prima “la tecnica” e poi “i riflessi”.
L’impressione è che Enotria abbia tentato di avvicinarsi a questi ultimi e in particolare a Elden Ring, ibridando quindi nell’equazione il parry e rendendolo centrale come in Sekiro. In questo modo però, si è dovuto scendere a patti con le tempistiche di azione e reazione dei nemici e l’impasto è diventato incoerente e indeciso. A tratti persino ingiusto, poiché ammantato di una difficoltà alquanto artificiosa. Come se per far funzionare un combattimento che ha i ritmi più lenti e tecnici dei souls e un sistema di parry obbligatorio (senza usarlo non si va avanti), la risposta sia stata rendere “schizofrenici” i nostri avversari. Che così prima vanno piano, poi improvvisamente hanno un paio di scatti immotivati. Poi di nuovo un movimento più lento, scaturendo in moveset incoerenti e imprevedibili, ma non in senso buono.
Approfondendo, questo problema deriva probabilmente dall’inesperienza degli sviluppatori nel comprendere la reale “difficoltà” dei Souls. Che non risiede in output di danni esagerati, in attacchi inschivabili e in cambi di ritmo illeggibili. Che, è evidente, non seguono uno stile di lotta ma bensì una matrice di randomizzazione casuale. Proprio perché non è “difficile” in modo soddisfacente ciò che ci prende di sorpresa, ma ciò che ci porta a imparare dai nostri errori, diventare più bravi ed efficienti.
Anche se nelle aree aperte il bilanciamento pare buono, con avversari più o meno commisurati alle abilità che si suppone abbiamo quando li incontriamo, questo problema diventa evidente durante gli scontri con i Boss. L’asticella della difficoltà in quei casi è quasi sempre alzata con espedienti posticci. Per esempio, seconde fasi che riempiono completamente la loro barra della vita. Oppure, avvalendosi delle succitate movenze scattose e senza preavviso alcuno. O ancora con output di danni o difese esagerate. Per non parlare dei bug e dei problemi tecnici.
Non è solo un problema di compenetrazioni tra oggetti, nemici e ambientazioni (ci sono, ma non sono così fastidiosi), né si tratta di semplici lag o fenomeni di stutter (presenti entrambi, ma limitati almeno su PC). Capita che certi mob si teletrasportino alle nostre spalle senza un motivo, a volte arrivando a noi da distanze davvero elevate e senza preavviso. Succede che le hitbox falliscano e si venga colpiti quando non dovremmo, o al contrario che non si riesca ad impartire un colpo sicuro randomicamente. Infine, tra le magagne più gravi ci sono shortcut che si resettano a caso (scale da attivare che tornano su da sole dopo uno stop al checkpoint), NPC che smettono di parlarci e ricominciano solo resettando il gioco, suoni e soundtrack mancanti o sfasati (più rari).
Persino, freeze degli avversari o dei Boss sul posto. Talvolta è possibile colpirli e abbatterli, di fatto “cheesando” lo scontro. Mentre altre volte diventano solo oggetti inamovibili. Va detto che gli sviluppatori ci avevano fornito un documento in cui questi bug e glitch erano elencati e indicati come “in risoluzione durante la prova”, ma almeno fino ad oggi, al momento in cui vi stiamo scrivendo, sussistono ancora tutti.
Essere “belli” non basta
Lo abbiamo detto, Enotria sa essere esteticamente “bello”, rifinito e curato, ma essere “belli” non basta. Non se poi, a supporto di quella bellezza manca un gameplay altrettanto piacevole. Non basta, per esempio, che i Boss abbiano design basati sulle maschere italiane e sul teatro. Che siano a volte ispiratissimi sia quando li affrontiamo che dopo, quando vestiamo il loro “ruolo”, una maschera ottenuto sconfiggendoli. Già perché, attingendo stavolta da Mortal Shell probabilmente, i dev hanno rifiutato il concetto di armature e utilizzato quello di “maschere e ruoli”, che forniscono variazioni alle statistiche, abilità passive e altri bonus o malus.
A volte, indossare una maschera specifica può anche essere indispensabile per utilizzare “versi” speciali, cioè abilità a metà fra le magie nei souls e le ceneri per le armi in Elden Ring. Il cui utilizzo è limitato da una barra individuale ricaricabile con attacchi consecutivi del personaggio. Il gioco consente di equipaggiare fino a 3 ruoli diversi e intercambiabili. Ciascuno con il suo set di versi, talenti (altre skill prettamente passive e bonus da sbloccare in un albero apposito nel menù ai checkpoint) e armi.
Oltre che per sfruttare eventuali versi unici, avere 3 build diverse a disposizione dovrebbe servire per avere sempre equipaggiata l’arma del tipo elementale migliore per contrastare quelli degli opponenti. Ce ne sono quattro: Vis, Malanno, Grazia e Fatuo, che resistono o si imprimono più danni l’un l’altro in un sistema alla sasso carta forbice. Perciò, teoricamente ci sono vari modi di massimizzare i danni e l’efficacia del personaggio. Oltre che ovviamente migliorandone le statistiche ai “falò”. Spendendo la valuta che, come da manuale, perdiamo quando veniamo sconfitti e possiamo recuperare se non cadiamo di nuovo. Si possono ovviamente anche potenziare le armi, le maschere e pure i versi, tramite apposite incudini e con materiali sparsi per le mappe. Il fatto è che tutta questa versatilità e varietà di build e moveset… non serve quasi mai.
Nel corso delle circa 20 ore che abbiamo speso in game, sfruttare la compatibilità tra gli elementi ci è servito forse 3 volte al massimo. Peraltro, in tutte e tre le occasioni non è stato piacevole sentirsi costretti a scegliere forzatamente una strategia o uno strumento con elemento complementare a quello del Boss, senza il quale la sfida si sarebbe rivelata infattibile. Difficile in senso artificioso, costruita per esserlo forzatamente e non per spronarci a far meglio: ma a fare diversamente.
Per fortuna, qualche battaglia meglio strutturata c’è ma, nella maggioranza dei casi, il succitato problema del ritmo non definito degli scontri è opprimente. Peraltro, spesso i moveset dei Boss più interessanti sono riciclati all’infinito per nemici base appartenenti alla stessa area del boss, finendo per essere banalizzati e venire presto a noia. Quando i suddetti nemici base non diventano a loro volta mini-boss, diversi dalle controparti comuni per via di un semplice potenziamento ai danni elementali.
Purtroppo ve lo avevamo detto: più parliamo del gameplay e del combat system, più i problemi e le criticità si moltiplicano. L’effettistica di magie e abilità è altalenante: a volte sono troppo semplici, stridenti con la qualità grafica delle ambientazioni. Altre volte, invece, riempiono lo schermo impedendo una corretta visuale e disturbando parecchio il flow del combattimento. Al di là delle meccaniche più semplici, quelle “da Souls”, tutte le altre peculiari del gioco sembrano quasi solo un tentativo di variare la formula a tutti i costi, finendo però per rendere l’esperienza meno immediata e meno comprensibile fin dal tutorial, quando siamo sommersi di indicazioni, pop up e spiegazioni varie. Laddove, invece, l’efficacia dei Souls dovrebbe essere una leggibilità chiara e semplice, che si costruisce con l’esperienza “complicandosi” man mano.
Per questo lo ripetiamo dall’inizio: non basta che la direzione artistica sia più che ispirata, basata sulle architetture dei borghi medievali baciati dal tramonto, a picco sul mare. Piuttosto che sulla Sicilia e sulla Magna Grecia, ricostruita con Boss basati sui Bronzi di Riace, mob semplici armati come soldati ellenici. Colossei dove combattere fiere letali. Nemmeno una re-immaginazione di Venezia, in Enotria chiamata Litumnia, è sufficiente a farci scordare le magagne più gravi. Nonostante i quartieri divisi in base ai mestieri degli abitanti, il colorato quartiere dei vetrai. O i pittoreschi avversari che ci attaccano a suon di acuti e lirica.
Non basta la “forma”, l’aspetto e la vibe, l’atmosfera da Souls originale che certi suoni, suggestioni, palette di colori e proporzioni restituiscono con forza. Quasi rievocando il primo Dark Souls di From Software. Non se poi il contenuto, il gameplay, è tanto carente sia sul fronte tecnico, che su quello creativo. Le stesse aree appena elogiate per come appaiono, da visitare sono molto meno interessanti. A causa di una mappatura confusionaria, di un enemy positioning non sempre azzeccato magari. O di una Boss fight conclusiva insoddisfacente (Pantalone e Balanzone sono la peggior versione di “Ornstein e Smough” mai realizzata, a mani basse).
In ben due occasioni, questo inaffidabile level design ci ha persino portati a perdere accessi immancabili ad aree impossibili da skippare. La cui posizione, nonostante l’importanza, non era segnalata da nessun NPC, testo nei menù o altro. Anche qui, crediamo si sia mal interpretato il concetto di sfida elevata nei Souls: non è “difficile” esplorare da capo una zona perché non si capisce come continuare il gioco dopo un Boss: è solo frustrante.
La recensione in breve
Siamo stati in dubbio fino alla fine dell’esperienza su quanto peso attribuire ai due bracci contrapposti di questa bilancia, fino a giungere alla conclusione che non potevamo ignorare un gameplay così carente. Per quanto bello artisticamente, curato in questo ambito al punto che siamo riusciti a sentire la passione degli sviluppatori per la loro opera, anche se le note di alcune colonne sonore ci hanno sorpreso come e più di quelle dei Souls più blasonati, Enotria non è sufficiente. Non sul fronte tecnico, né su quello puramente ludico, che rispetto a quello estetico sembrano quasi abbozzati e non finiti. Credeteci, lo affermiamo a malincuore. Di più: sperando che Jyamma Games possa apprendere da questa esperienza andata male e, la prossima volta, proporre un titolo più bilanciato. Per aspera, ad astra.
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Voto Game-Experience