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Home»Articoli»Speciali»Ehi, facciamo un bel live service? Cosa mai potrebbe andare storto?

Ehi, facciamo un bel live service? Cosa mai potrebbe andare storto?

Quanti altri videogiochi-servizi dovranno fallire prima che le grandi aziende capiscano che c'è qualcosa che non va?
Andrea PeroniBy Andrea Peroni30 Marzo 2025
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Jim Ryan di Sony con i loghi PlayStation sullo sfondo
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Fatemi capire una cosa: quand’è che ha iniziato a diffondersi la convinzione che “live service = successo assicurato”? No, davvero, io non ricordo un momento preciso. Forse bisogna tornare al momento dell’esplosione atomica dei battle royale, quando già PUBG stava affondando gli artigli sul mercato videoludico prima che Epic Games tirasse fuori l’idea del secolo con la modalità free to play di Fortnite.

Ma del resto, come si può pensare di non essere attratti da questo modello di business? Mentre avete letto queste righe, Tim Sweeney ha guadagnato grazie a Fortnite probabilmente più di quello che guadagnerete in tutta la vostra vita, a meno di diventarefuffaguru del web che investendo sui carciofi della Spagna sono passati da una Panda 4×4 in leasing a una Pagani Huayra in mezza giornata. E non parliamo di GTA Online: da semplice modalità multiplayer nel 2013, si è trasformata in un fenomeno di portata mondiale, riscrivendo il modo di lavorare di uno studio come Rockstar Games. A Epic e Rockstar, la piega live service è andata bene. Agli altri no.

Giusto o sbagliato?

fortnite salva il mondo

Il fatto è che c’è qualcosa di profondamente sbagliato nell’industria odierna. Il settore del gaming, da troppo tempo, è malato. Malato di idee, di proposte, di concetti. Tutti vogliono essere in grado di fare qualsiasi cosa, e invece il più delle volte assistiamo a fragorose cadute che riportano sulla terra le grandi aziende e, purtroppo, spediscono a casa tanti dipendenti che hanno avuto solo una colpa: seguire quello che chiedeva chi comanda. Coloro che, il più delle volte, dimostrano di non sapere assolutamente cosa sta succedendo ai videogiochi.

Ora, i live service, vale a dire videogiochi che basano la loro esistenza su una solida (che sempre solida non è) base che viene poi accresciuta col tempo, non sono il male del settore. Titoli che partono talvolta col freno a mano tirato per varie ragioni, come fu ad esempio per Sea of Thieves di Rare, riescono poi col tempo a decollare, agganciare una grandissima community e costruire con anni di duro lavoro e impegno un universo che tutti vorrebbero visitare. Lo abbiamo visto anche con Destiny, Warframe, Genshin Impact, League of Legends o anche Path of Exile. Eppure, sono sempre più i progetti fallimentari.

Il problema è l’essere un live service? Ma quando mai. Un videogioco si può costruire in mille modi possibili, ma l’importante è che alla base ci sia un’idea, uno spunto, un concetto che deve essere in grado di catturare anche chi lo deve sviluppare. E questo probabilmente è quello che è mancato a tante aziende in questi anni. Big dell’industria che, dalla mattina alla sera e con motivazioni incomprensibili (se non la ricerca del vil denaro, che comunque è necessario), si mettono in testa che è ora di creare da zero un game as a service che deve diventare il nuovo fenomeno mondiale in un paio di settimane. Non ci riesci? Vai a casa.

I personaggi di Suicide Squad: Kill the Justice League

Pensiamo a quello che è accaduto nell’ultimo anno e mezzo a Warner Bros. Games, una divisione che in questo momento sta andando a rotoli e che viene tenuta a galla solo da un nome: Hogwarts Legacy. Un gioco capace di vendere oltre 30 milioni di copie (è quasi quanto ha fatto Breath of the Wild!), certamente spinto dal potere della sua IP ma capace comunque di proporre un validissimo GDR single player che ha dato ai fan di Harry Potter esattamente ciò che volevano. La mossa successiva di Warner? Annunciare che da quel momento in avanti, il futuro sarebbe stato nei live service. Così, dal nulla. In realtà, questa decisione affonda le radici molto indietro nel tempo. Prendiamo Rocksteady: l’idea di realizzare Suicide Squad: Kill the Justice League è nata tra il 2015 e il 2016, e forse in quel momento poteva essere davvero una buona idea. Oggi, quasi 10 anni dopo, no, e infatti il gioco ha floppato malamente per una serie di motivi – uno su tutti: è peggio di Marvel’s Avengers in alcune componenti.

Ma tu, grande azienda come Warner, davvero non hai fiutato in questi circa 9 anni di sviluppo di Suicide Squad che qualcosa rischiava di andare male? Nessun sondaggio di mercato, nessun ripensamento? Fatto sta che pochi giorni fa, dopo aver registrato anche i flop di Quidditch Champions e MultiVersus (per ben due volte, quasi come Morbius!), Warner ha deciso di ristrutturarsi e chiudere tre studi, tra i quali Player First Games (>autori di MultiVersus acquisiti appena 6 mesi fa, io boh…) e persino Monolith Productions, uno dei suoi team più talentuosi. Risultato finale in casa Warner: live service 0 – fallimenti 3. Non c’è stata partita.

La cosa che più sorprende noi giocatori è che nessuno sembra capace di imparare non solo dai propri, ma anche dai problemi degli altri. Tutti, proprio tutti, vogliono saperne più degli altri.

Eppure ci vogliamo provare lo stesso

I personaggi di Concord

È così ad esempio che siamo arrivati alla situazione attuale in PlayStation, dove, dopo metà generazione con qualche picco e tanti vuoti, ci attenderà una seconda metà probabilmente nello stesso modo. Il perché ha un nome e un volto, quello di Jim Ryan, che qualche anno fa aveva deciso che per rendere sostenibili i PS Studios, gente come Naughty Dog, Insomniac Games e Guerrilla doveva mettere in piedi dozzine di live service. Così, dal nulla. A prescindere dalle idee e dalle proposte. The Last of Us? Facciamolo online. Spider-Man? Vai di gioco coop nel multiverso. God of War? Facciamoci qualcosa non-sappiamo-bene-neanche-cosa-ma-facciamolo perché è una grande IP. Grazie al cielo, il disastro di Concord ha riportato Sony sulla carreggiata delle grandi produzioni single player… ma sapete quanto tempo ci vuole per crearle?

Tutto questo va a braccetto con il morbo che affligge l’industria odierna, quella cioè di un settore, quello videoludico, che nell’ambito dei tripla A sembra osare solo nella direzione sbagliata. BioWare arrivava dal tonfo epocale di Anthem, un live service, e abbiamo dovuto sentire il CEO Andrew Wilson dire che le scarse vendite di Dragon Age: The Veilguard sono colpa del mancato modello live service. Ma santo cielo, davvero il problema più grande di Veilguard è il non essere un live service?

La protagonista di Dragon Age: The Veilguard

In qualche modo, tutti ci finiscono dentro. Capcom sta provando in tutti i modi da anni a creare un live service di Resident Evil, e non ce n’è uno che sia andato bene. Ubisoft viene tenuta a galla ancora da Rainbow Six Siege che quest’anno fa 10 anni, quando invece giochi come XDefiant e Skull and Bones, nati con questo preciso scopo di durare in eterno, si sono sciolti come neve al sole – il gioco piratesco di Ubisoft Singapore fatica a tenere un picco di 200 utenti giornalieri su Steam, non male per il primo AAAA della storia. Square Enix tra Marvel’s Avengers, Babylon’s Fall e Foamstars ha collezionato tanti di quei debiti da far invidia anche al Parma di Manenti e MapiGroup. Activision, poi, non ne parliamo. Ok Warzone, ma basta nominare quello scempio di Crash Team Rumble per far capire quanto anche il publisher di Call of Duty abbia cercato invano di cavalcare qualcosa di irrealizzabile.

Dove sta andando quest’industria, purtroppo, non lo sappiamo. Ma sappiamo anche che i live service, per quanto siamo importanti in ottica di sostentamento, non possono essere la risposta a tutti i problemi della vita. E nessuno, purtroppo, sembra capirlo.

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