Figlio di una saga che ormai va avanti dal 1997 e che conta oltre 60 episodi fra serie principale ed i vari spin-off (senza contare espansioni e riedizioni), Dynasty Warriors: Origins è un titolo sul quale il team di sviluppo Omega Force ha posto un enorme responsabilità, ovvero quello di portare una sostanziale innovazione all’interno di una saga che il team stesso riconosce essere diventata ormai fonte di deja vù per i giocatori nel ripercorrere le stesse storie e le stesse battaglie. Del resto molti dei giochi di questa enorme serie sono appartenenti alla serie principale, quella di Dynasty Warriors, che basa la sua storia su Il romanzo dei i Tre Regni, uno dei libri più importanti della letteratura cinese, scritto nel XIV secolo, che narra della storia della Cina Imperiale fra il 169 ed il 280.
Non solo: i titoli di Omega Force (ai quali ci riferiremo con il nome giapponese di Musou), sono riconducibili ad una struttura dettata nel 2000 da Dynasty Warriors 2, primo titolo della serie ad adottare tutte le caratteristiche per cui son famosi i giochi sviluppati da Omega Force e prodotti da Koei Tecmo, ovvero quelli di essere degli action game in mappe di una certa dimensione dove il giocatore si ritroverà solo o con pochi alleati a decimare le centinaia di nemici che cercheranno di porsi fra i personaggi controllati ed il nostro obiettivo: anche da questo punto di vista Omega Force si è posta come obiettivo quello di creare il Dynasty Warriors definitivo.
Ho ricevuto l’ordine dal Cielo.
La storia di Dynasty Warriors: Origins, come già anticipato, si basa sempre sul romanzo dei Tre Regni, ma a differenza del passato si è deciso di avere un nuovo approccio con la narrazione: se infatti i capitoli precedenti condensavano dentro le proprie linee di codice oltre un secolo di storia cinese caratterizzata da epiche e imponenti battaglie ed il gioco ci metteva di volta in volta nei panni di grandi condottieri e personaggi storici della Cina Imperiale, Origins ci presenta sin da subito il personaggio del Vagabondo privo di nome che, nonostante la perdita di memoria che gli ha fatto dimenticare qualsiasi evento accadutogli fino alla sua identità, ricorda perfettamente l’addestramento da guerriero ricevuto al punto da poter utilizzare senza difficoltà qualsiasi arma trovata sul campo di battaglia.
Un cliché piuttosto abusato che viene introdotto solo per tenere ovviamente nascosto il passato del protagonista al giocatore, sebbene i primi indizi sulla sua identità saranno resi noti già alla fine del primo capitolo. Il Vagabondo senza nome è un Guerriero della Pace, un abilissimo combattente addestrato per poter uccidere quelle persone che portano il caos nei territori del regno, rompendo il delicato equilibrio sul quale si regge la pace. La scelta di usare un personaggio non così indimenticabile come il Vagabondo porta però il gioco su binari narrativi non esplorati prima dalla serie. Prima di tutto la scelta di raccontare solo i primi 30 anni della storia dei Tre Regni a partire dalla rivolta dei Turbanti Gialli è stato sicuramente uno stratagemma per poter parlare in maniera più approfondita di personaggi ed eventi che negli scorsi capitoli erano solo accennati.
Certo, ci muoviamo comunque all’interno di binari storici già ampiamente esplorati dalla serie, ma l’uso di un escamotage narrativo di questo tipo, accompagnato da una messa in scena attraverso cutscenes dal taglio cinematografico che richiamano lo stile del genere wuxiapian, permette non solo di creare maggior pathos durante il racconto delle vicende trattate, ma attraverso i dialoghi aggiuntivi con personaggi primari e secondari nell’overworld assisteremo anche ad un maggior approfondimento delle loro caratteristiche peculiari.
Secondariamente, il nostro personaggio avrà l’importantissima responsabilità di decidere con quale fazione dei Tre Regni schierarsi, portando così il giocatore a vivere la storia da tre punti di vista differenti, aumentando così la longevità del gioco, già contraddistinta da una campagna di 30 ore che dovrà essere rigiocava più volte per aver accesso al vero finale della storia.
Possa il mio tempo essere sempre lungo e prospero.
La storia non è però l’unica novità sostanziale in questo Dyansty Warriors: Origins: a differenza degli altri titoli della serie dove il fenomeno del button smashing era piuttosto evidente e falciare le orde dei nemici inermi in attesa del generale di fine battaglia, questo capitolo corregge il problema integrando avversari, sia truppe regolari che ufficiali, tendenzialmente molto più aggressivi e coriacei che in passato. Il maggior numeri di attacchi nemici porta alla necessità di utilizzare parate e schivate in maniera opportuna al posto di un approccio totalmente aggressivo, anche perché l’esecuzione di mosse difensive precise permettono di effettuare un contrattacco capace di ridurre il valore di guardia nemico che una volta azzerato renderà l’avversario suscettibile ad attacchi speciali che infliggono ingenti danni; la schivata è inoltre diventata uno strumento per gestire al meglio le combo del sistema, dato che funge da comando di input cancel.
Il sistema di avanzamento si basa interamente sull’uso delle armi: più nemici sconfiggeremo con ciascuna delle 9 tipologie di armi presenti nel gioco e più punti arma otterremo, in quali ci permetteranno di accedere a differenti alberi delle abilità, strutturati in maniera piuttosto lineare ma che restituiranno un senso di crescita dell’avatar del giocatore. Le meccaniche da GDR sono inoltre riconducibili ad una gestione piuttosto banale dell’inventario e nel complesso non rappresentano di certo aspetti parametrici capaci di buildare il proprio avatar a piacimento, dato che la maggior differenza la si percepirà attraverso il feeling restituito dalle differenti tipologie di armi ed alle mosse speciali (chiamate tattiche) equipaggiabili che varieranno a seconda della tipologia di arma e che saranno richiamabili tramite una combo di tasti azione e dorsali.
Per il resto è il classico sistema musou al quale siamo abituati potenziato da tutti quegli accorgimenti che fra capitoli principali e spin-off hanno arricchito l’esperienza tanto degli sviluppatori, alla ricerca della formula perfetta quanto giocatori: fra combo di attacci leggeri e pesanti che diventeranno sempre più lunghe man mano che il nostro livello di abilità con le armi accrescerò, attacchi musou utili per tirarci velocemente fuori dagli impicci ed una God mode che ci darà preziosi secondi di attacchi potenziati per terminare con una finisher devastante.
Le attività presenti sulla mappa, le cui zone si aprono davanti a noi con il proseguio della storia, sebbene non si differenzino più di tanto permettono sempre al giocatore di fare qualcosa: le missioni secondarie e le schermaglie offrono la possibilità di “menare le mani” in sfide decisamente più contenute, la raccolta di materie come il metallo per la forgiatura degli amuleti e le monete antiche sono propedeutici al potenziamento e gli incontri con altri generali sono pensati per aumentare l’affinità e per ricevere nuovi sub-quest che ci doneranno punti abilità extra, tuttavia il core rimangono le grandi battaglie campali che mai fino ad ora avevano offerto la sensazione di trovarsi faccia a faccia con un esercito così imponente.
Tale sensazione passa anche attraverso un comparto tecnico di tutto rispetto: la difficoltà per la serie è sempre quella di muovere a schermo un numero così elevato di NPC senza causare perdite di framerate, obiettivo non sempre centrato da tutti i capitoli della serie, ma il motore che gestisce il gioco riesce ad offrire un’azione fluida a 60 fps durante tutte le sessioni di gioco (vi è anche una modalità a 120 fps che purtroppo non abbiamo avuto il piacere di testare), nonostante l’azione concitata ed il grande numero di elementi a schermo, compresi i corpi dei nemici sconfitti che non spariranno immediatamente dal campo di battaglia per far spazio ad altre unità ma rimarranno per un lasso di tempo atto a far percepire la sensazione di devastazione che il protagonista lascia dietro di sé.
Poco interessante è invece la colonna sonora, composta per cavalcare gli stereotipi riconducibili al cinema cinese e quindi facilmente associabile alle atmosfere ed all’ambientazione dipinta nel gioco, ma davvero poco incisiva e memorabile.
La recensione in breve
Nel complesso Dynasty Warriors: Origins centra il suo obiettivo di rinnovare la serie senza però snaturarne le caratteristiche principali: il suo sistema di combattimento più fluido e ricco, grazie anche al motore grafico che regge bene l'azione a schermo, così come l'intenzione di cambiare la narrazione offrendo un punto di vista inedito ed un diverso ritmo forse non stravolgono completamente la formula, ma sicuramente offrono uno dei capitoli più completi e godibili del brand.
-
Voto Game-Experience